di Francesca Gori e Rosaria Mastronardo
Questo testo, scritto a quattro mani, è tratto dalla collana Le Briciole – CESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione.
La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.
Le autrici:
dott.ssa Francesca Gori è psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato tecnico scientifico del Coordinamento toscano dei gruppi di auto aiuto;
Rosaria Mastronardo: è facilitatrice di due gruppo di auto aiuto dal nome “Fibromialgia: affrontiamola insieme”, il primo, in presenza, costituito il 6 settembre del 2018, il secondo, in modalità on line, il 24 febbraio 2021. Il suo motto è: “Mi aiuto aiutando”.
Alla base della medicina narrativa c’è l’idea che ciascuna interazione tra esseri umani comporti uno scambio di narrazioni. Cos’è quindi una narrazione? Secondo la sintetica ed efficace definizione di Barbara Herrnstein Smith, famosa critica e teorica letteraria americana, nota soprattutto per il suo lavoro Contingencies of Value. Alternative Perspectivesfor Critical Theory, “la narrazione è il discorso in cui qualcuno dice a qualcun altro che qualcosa è accaduto”.
Quando una persona entra nello studio di un medico è un “qualcuno che racconta a qualcun altro che qualcosa è accaduto”. La malattia stessa viene raccontata secondo un andamento cronologico: “prima stavo bene, poi ho iniziato a stare male, dunque mi sono curato e infine sono guarito”.
Anche la ‘storia clinica’ è una narrazione; è la narrazione che fa il medico, costruendo una trama sulla base delle sue competenze medico/scientifiche.
I fatti narrati nella cartella clinica non sono gli stessi che vengono narrati dal paziente, e non sono più o meno veri di questi. Ogni storia esprime una prospettiva. La narrazione è infatti il modo in cui diamo un senso ai fatti, mettendoli in ordine, all’interno di una rete più vasta che è la trama.
La narrazione ha diverse caratteristiche:
- presuppone un narratore e un ascoltatore/lettore;
- è strutturata secondo una linea temporale principale;
- riguarda l’individuo ed è un sapere idiografico;
- esprime i fatti accaduti attraverso il ‘filtro’ della coscienza del soggetto narrante, ed anche attraverso il ‘filtro’ della coscienza del suo interlocutore;
- rivela informazioni parallele oltre ai fatti accaduti;
- coinvolge l’ascoltatore in un processo interpretativo.
La narrazione del medico, generalmente, si concentra sulle informazioni biomediche, relativamente al suo campo di conoscenza e specializzazione.
La narrazione della persona invece include non solo aspetti biologici ma principalmente aspetti psicologici, sociali, culturali, esistenziali. La narrazione diventa in questo modo soggettiva. Diciamo pure che la malattia raccontata dal paziente è illness e sickness, non solo disease.
Chiariamo le sfumature di questi tre termini:
sickness: significa il percepito di una società di fronte alla malattia o situazione di squilibrio;
illness: è il convivere con una condizione di malattia o alterazione dell’equilibrio;
disease: è utilizzato per indicare il punto di vista del curante rispetto alla malattia.
Il fatto di prendere una malattia, di essere malato, di migliorare o peggiorare, di fallire nel fronteggiare la malattia può essere visto come parte di una narrazione più ampia della vita delle persone. La narrazione della malattia fornisce uno strumento per approcciare i problemi del paziente in modo olistico e che potrebbe svelare delle possibili alternative diagnostiche e di cura. La narrazione offre un metodo per comprendere le caratteristiche esistenziali come il dolore interiore, il lutto, la disperazione, la speranza che frequentemente possono far parte o costituire lo stato di malattia di una persona. La narrazione della malattia è stata perduta ma dovrebbe essere rivalutata dalla medicina. Per chi è affetto da una malattia cronica, la propria narrazione del dolore assume un aspetto importante nonostante si trovi poco spazio per poterlo fare. Numerose sono le motivazioni, tra le quali il tempo a disposizione del personale medico che tiene in cura il malato cronico. Per quel che riguarda alcune malattie croniche, purtroppo non in tutte le regioni sono previsti dei Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) che assicurino una presa in carico multidisciplinare dei pazienti e che siano rivolti ad un miglioramento dell’accesso alla diagnosi e ad un celere trattamento. Posso affermare che le difficoltà che incontrano i pazienti cronici, sia prima che dopo la diagnosi, sono molteplici, spesso troppo onerose da sopportare. La migrazione da uno studio medico all’altro e la ricerca costante di informazioni porta spesso ad un girovagare tra specialisti, e ciò fa accrescere inevitabilmente la frustrazione di non essere compresi, oppure, nel peggiore dei casi, di non essere assolutamente creduti. Per ogni condizione di malattia, il saper ascoltare, in un rapporto fiduciario tra medico e paziente è importantissimo e consente di affrontare ogni tentativo terapeutico con una migliore consapevolezza e una più positiva aspettativa di miglioramento dei sintomi. È essenziale comunicare con il paziente in modo che esso possa prendere coscienza della propria condizione attraverso informazioni precise. Avere tempo per l’ascolto, per essere accolti è importantissimo. Oggi la medicina non deve essere più centrata solo sulla malattia. La malattia è oggetto cruciale dell’agire del medico. Al medico sono affidati due grandi compiti: raggiungere una diagnosi corretta e intervenire attraverso strategie terapeutiche adeguate. L’approccio alla malattia da parte del medico si dovrebbe gradualmente modificare: bisogna lasciare sempre più spazio al paziente nella sua globalità e alla relazione come strumento fondamentale, imprescindibile e basilare nel processo di diagnosi e di cura. Non più la malattia al centro dell’interesse del medico, ma il paziente, quel paziente, con il quale si instaura una relazione, tenendo conto della sua storia e dell’ambiente in cui vive. La comunicazione come strumento di relazione, sia essa verbale che non , deve diventare con il tempo il centro di interesse nei vari corsi di formazione rivolti, nello specifico, al personale sanitario (medico e paramedico) ed estesi anche al personale front-office inserito in contesti di cura.
La comunicazione deve diventare parte della terapia: il tempo della comunicazione e dell’ascolto sono fondamentali per la crescita della relazione di cura. Sono i momenti nei quali la relazione tra medico e paziente trova la sua massima espressione. Senza comunicazione non c’è alleanza e viene meno la fiducia. Se manca l’ascolto, se manca la comunicazione, ogni ambulatorio, ogni casa di cura, ogni struttura sanitaria diventa una catena di montaggio, il paziente un bullone, il medico un operaio. Nei paesi anglosassoni la comunicazione è integrata nei programmi di insegnamento e di valutazione, cosa che invece manca o non è valorizzata nel nostro Paese. Quando sarà possibile una buona comunicazione, verbale e non verbale, come strumento di una fiduciaria relazione tra medico e paziente? E ancora, per citare un passaggio del Why Study Narrative, a quando una ripresa della narrativa nell’insegnamento e nella pratica della medicina?