Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo: psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli.

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico.

Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme

(F. De André, 1981)

Un cammino che spesso inizia in salita

Da quando ho intrapreso la mia professione di psicologa e psicoterapeuta ho capito ancor di più che le parole sono importanti, ma soprattutto lo è l’uso che ne facciamo. Se andassimo a consultare il vocabolario alla voce “cronico” vedremmo che questo termine deriva dal greco chronĭcus, derivazione χρονικός, “tempo”. Se calassimo questa parola all’interno della dimensione della patologia scopriremmo che per il paziente soggetto a cronicità il fattore tempo si lega alla sua condizione di salute: il paziente, giorno dopo giorno, si trova a combattere con un corpo o una parte di esso che ha smesso di essere suo “alleato”, rendendo più difficile e complesso il cammino della vita, più di quanto non lo fosse prima. Proseguendo nella lettura, lo stesso dizionario illustra che in medicina, e nel linguaggio comune, ci si riferisce alla cronicità come a una condizione di malattia a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione.

Le malattie croniche sono patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e per le quali le terapie non sono quasi mai risolutive. L’incidenza di queste patologie, che possono essere di origini diverse, è molto alta: rappresentano circa l’80% del carico di malattia dei sistemi sanitari nazionali europei. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo i dati riportati dall’Istituto superiore di sanità al 5 gennaio 2022, le malattie croniche (o non trasmissibili) interessano in Italia circa 24 milioni di persone. Tali situazioni hanno un impatto importante sulla qualità e sull’attesa di vita della popolazione, perché queste malattie interessano tutte le fasi della vita, anche se i segmenti di popolazione più frequentemente colpiti sono gli anziani: soffre infatti di malattie croniche più dell’85% delle persone che hanno superato i 75 anni di età, ed in particolare le donne dopo i 55 anni. La lotta alla condizione di malato cronico rappresenta, senza dubbio, una sfida complessa ma, al contempo, prioritaria e ad ampio raggio, che parte dall’incremento e dal miglioramento delle conoscenze relative a tutti quei meccanismi e a quei fattori di rischio che portano allo sviluppo della condizione di cronicità e alle possibili strategie e programmi di prevenzione e di trattamento.

È una vera e propria sfida che coinvolge diversi livelli di intervento. Tali livelli si ancorano o dovrebbero ancorarsi a modelli organizzativi basati su un approccio organizzato e integrato, ed essere orientati tanto ad una maggiore efficienza quanto al miglioramento della qualità e dell’assistenza dei malati cronici. Tutto ciò è stato ribadito anche all’interno del recente articolo pubblicato su “Nature” (Whitty & Watt, 2020), in cui si sottolinea quanto sia importante, all’interno dei contesti di cura, superare la tendenza a trattare le diverse comorbilità come “compartimenti stagni” e superare così la tendenza ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialisti, senza che questi abbiano la possibilità di poter lavorare in sinergia gli uni con gli altri. Perseguire questo sentiero è importante anche, e soprattutto, per giungere all’individuazione di una diagnosi corretta.

Al di là della sua specificità, infatti, diagnosticare una malattia cronica può non coincidere con l’insorgenza della malattia stessa. Ci sono pazienti la cui sintomatologia consente di giungere a una diagnosi tempestiva; per altri invece la patologia risulta complessa da individuare perché dalle indagini strumentali il paziente appare sano pur non essendolo.

Sono i così detti pazienti invisibili, che non ricevono sufficienti attenzioni dalla ricerca, perché le loro malattie non rientrano nei LEA: si tratta delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento, di una quota di partecipazione (il ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso le tasse. Ciò significa che per queste categorie di pazienti non sono previste tutte quelle prestazioni o quei servizi che di norma sono forniti dal Servizio sanitario nazionale. Questo genera, sia per i singoli pazienti sia le loro famiglie, un pesante impatto di natura economica, capace di mettere a dura prova il “sistema famiglia”.

Dunque queste persone si assumono l’onere di sopportare, oltre alla sofferenza fisica, anche il disagio psicologico che deriva dal non sentirsi compresi, visti o ascoltati nella propria sofferenza e nel proprio disagio, sia dal contesto sociale in cui sono inseriti che dallo stesso Sistema sanitario nazionale.

Riporto di seguito alcuni stralci dei colloqui con i pazienti:

Una malattia che esiste solo se è visibile ci porta inadeguatezza, disagio, paura”.

Nessuno, oltre a te stesso può vedere, capire o provare cosa ti succede quando si scatena”.

Nessuno mi crede e difficilmente comprende la fatica che comporta anche il più

piccolo gesto”.

Spesso lo stato di salute di questi pazienti viene assimilato alle così dette functional somatic sydromes: sono le sindromi somatiche funzionali descritte per la prima volta da S. Wessely e attualmente definite come Medically Unexplained Symptoms (MUS) o “Sintomi clinicamente inspiegabili”. Sebbene i sintomi inspiegabili dal punto di vista medico rappresentino un fenomeno comune, l’esatta struttura latente dei sintomi somatici rimane in gran parte poco chiara (Edwards, et. al 2016; Witthöft et al., 2013).

È questa la dimensione in cui diagnosi e terapia diventano un percorso tortuoso, perché la sintomatologia spesso non trova una corretta classificazione diagnostica. La ragion d’essere di tale difficoltà potrebbe essere rintracciata nel fatto che malattie, seppur simili, hanno sviluppi e decorsi completamente diversi. Tale condizione mette a dura prova anche il rapporto paziente-medico. Il primo può perdere fiducia nelle capacità diagnostiche del medico e rivolgersi a numerosi altri professionisti. Il medico, invece, proprio in ragione di tali difficoltà, potrebbe richiedere altri accertamenti clinici, che comporta per il paziente intraprendere un percorso travagliato e costellato da diagnosi multiple.

Nell’affannosa ricerca di questo “nemico invisibile”, spesso viene consigliato ai pazienti di andare dallo psicoterapeuta, quale estremo tentativo di trovare una soluzione a un malessere, a una condizione di sofferenza apparentemente inspiegabile e senza nome. Quando questo accade, alla sofferenza viene generalmente riconosciuta esclusivamente la “paternità” della psicosomatica e della matrice di natura psicologica del disturbo organico. Di certo i fattori psicologici sono importanti nella patogenesi di tutte le malattie croniche in cui la componente psicosomatica diventa un terreno comune, un anello di congiunzione tra medicina e psicologia clinica di cui quel disturbo rappresenta l’esito di un processo di somatizzazione, un fenomeno che conduce all’espressione organica di un’emozione o di un conflitto psicologico. Credo però che sia per certi versi controproducente definire unicamente come psicosomatico ciò che, per svariate ragioni, non si riesce a comprendere nella sua complessità, perché questo aggiunge disagio a disagio. Confrontarsi con la cronicità significa allora saper cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità; una complessità che contempla anche gli aspetti psicologici e che vede “soma” e “psiche” non come entità separate ma legate nella loro unicità. Nell’individuo, infatti, i processi psichici consci e quelli inconsci non sono separati dagli eventi fisiologici (Frigoli, Masaraki, Morelli, 1980).

A domani, per altri due capitoli:

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Il sistema famiglia

Buona lettura