Gli antidepressivi usati contro il dolore cronico funzionano? Dipende…

Uno studio sul Bmj (https://www.bmj.com/) fa chiarezza sull’uso degli antidepressivi nel trattamento del dolore cronico. Invitando a prescrivere il farmaco giusto al paziente giusto. Perché l’efficacia della terapia dipende dal tipo di farmaco e dal tipo di dolore

Il boom di vendite di antidepressivi in molti Paesi del mondo registrato negli ultimi anni (nei Paesi dell’Ocse il consumo di questa categoria di psicofarmaci è raddoppiato tra il 2000 e il 2015) non indica necessariamente un aumento equivalente dei casi di depressione.

Il disturbo dell’umore resta, ovviamente, la principale ragione per cui si ricorrere a un antidepressivo, ma non è l’unica. Sta infatti aumentando notevolmente l’utilizzo degli psicofarmaci per il trattamento del dolore cronico. Gli antidepressivi vengono prescritti per calmare le sofferenze causate da malattie reumatiche, emicrania, mal di schiena, fibromialgia, sindrome dell’intestino irritabile e altri dolori difficili da gestire con i farmaci analgesici. È vero che spesso il dolore cronico è associato alla depressione, ma gli antidepressivi vengono prescritti anche in assenza di disturbi mentali o dell’umore, solo ed esclusivamente a scopo antalgico. La maggior parte delle prescrizioni avviene “off label”. Le eccezioni sono poche: c’è la duloxetine, che in Australia è approvata per il dolore neuropatico diabetico, o l’amitriptilina approvata nel Regno Unito per il dolore neuropatico, la cefalea tensiva e l’emicrania. Ma questa strategia, che sia “on” oppure “off-label”, è sicura? È efficace?

La risposta si trova nell’indagine appena pubblicata sul British Medical Journal secondo la quale la prescrizione degli antidepressivi nella terapia del dolore cronico dovrebbe avvenire cercando di dare il farmaco giusto al paziente giusto. Perché non tutti gli psicofarmaci funzionano per ogni condizione. I ricercatori dell’Università di Sidney che hanno realizzato lo studio, per esempio, criticano le linee guida redatte nel 2021 dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE) britannico che raccomandano indiscriminatamente diversi tipi di antidepressivi per gli adulti che vivono con dolore cronico. L’elenco comprende l’amitriptilina, il citalopram, la duloxetina, la fluoxetina, la paroxetina o la sertralina.

«Raccomandare un elenco di antidepressivi senza un’attenta considerazione delle prove per ciascun farmaco in rapporto alle diverse condizioni di dolore può indurre erroneamente medici e pazienti a pensare che tutti gli antidepressivi abbiano la stessa efficacia per tutte le condizioni di dolore. Abbiamo dimostrato che non è così», ha dichiarato Giovanni Ferreira autore principale dello studio.

Per fare i dovuti distinguo, i ricercatori hanno condotto una revisione sistematica di studi condotti tra il 2012 e il 2022 che avevano coinvolto in tutto 25mila partecipanti testando 8 classi di antidepressivi e 22 tipi di dolore cronico (mal di schiena, fibromialgia, mal di testa, dolore postoperatorio e sindrome dell’intestino irritabile).

Dall’analisi dei risultati è emerso che alcuni antidepressivi sono effettivamente efficaci nella gestione del dolore. Gli inibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina (SNRI) come la duloxetina hanno mostrato un potere analgesico per un gran numero di condizioni, come mal di schiena, artrosi del ginocchio, dolore postoperatorio, fibromialgia e dolore neuropatico (dolore ai nervi).

Al contrario, gli antidepressivi triciclici, come l’amitriptilina, che sono gli antidepressivi più usati per il trattamento del dolore nella pratica clinica, non hanno dato chiare evidenze di una loro efficacia.

«Questa revisione, per la prima volta, riunisce tutte le prove esistenti sull’efficacia degli antidepressivi nel trattamento del dolore cronico in un documento completo», ha commentato Ferreira.

Gli scienziati hanno inserito alla fine del loro studio una nota con un invito alla prudenza: «Gli antidepressivi sono medicinali soggetti a prescrizione medica. Non usare antidepressivi se non sotto consiglio medico. È molto importante non interrompere bruscamente il trattamento per evitare effetti di astinenza che possono essere angoscianti e talvolta presentarsi come gravi problemi di salute. Questi effetti di astinenza includono vertigini, nausea, ansia, agitazione, tremore, sudorazione, confusione e disturbi del sonno», avvertono i ricercatori.

Questo articolo è stato scritto il 6 Febbraio 2023

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica.

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo è il primo di oggi.

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Quando si giunge finalmente alla diagnosi, questa può paradossalmente generare un momentaneo sollievo, perché il paziente si sente finalmente legittimato agli occhi degli altri nella sua condizione di sofferenza e malattia. Quella consolazione temporanea cede però ben presto il posto ad un coacervo di emozioni. Scoprire di essere ammalato, e di esserlo quasi certamente per sempre, crea comprensibilmente uno shock, una sorta di lacerazione interna, che fa vacillare il senso di certezza che fino a quel momento aveva accompagnato il percorso di crescita personale.

Ogni individuo ha infatti un personale e soggettivo modo di elaborare la malattia che l’ha colpito. La perdita dello stato di salute è infatti paragonabile a un vero e proprio “lutto” e per certi versi sembra ricalcare le fasi della sua elaborazione. La diagnosi, dopo quel momentaneo sollievo, potrebbe comportare nel paziente il manifestarsi di profonde reazioni emotive; se all’inizio possono portare a dissimulare comportamenti più o meno congrui a quanto sta accadendo, successivamente ci può essere la messa in campo di forti meccanismi difensivi, come la negazione, la proiezione, la regressione ma anche la razionalizzazione.

Il “lutto” genera una sorta di frattura tra ciò che si era prima che insorgesse la malattia e ciò che si è dopo; si tratta di uno spartiacque temporale che impone al paziente un confronto rispetto al proprio passato, sia esso più o meno recente, e un presente fatto di cambiamenti, di nuovi adattamenti e riadattamenti. È un percorso in divenire in cui il paziente deve imparare ad accogliere nella sua quotidianità, oltre agli aspetti prettamente organici della sua malattia, anche tutta una serie di nuove variabili con cui deve imparare a confrontarsi. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, una serie di disagi psicologici, legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che potrebbe essere diverso da ciò che è stato fino a quel momento.

Si tratta di un processo complesso in cui può anche accadere che il paziente, immerso nell’affannosa ricerca della dimensione in cui collocare il proprio malessere, ponga maggiormente la propria attenzione alla componente fisica del proprio disagio, focalizzandosi esclusivamente su tutti quegli aspetti negativi che la malattia ha comportato ed in particolar modo, rapito dall’ansia anticipatoria, su tutti quei progetti o attività che la nuova condizione di salute potrebbe non permettergli più di svolgere.

Tutto ciò lasciando in secondo piano gli aspetti psicologici implicati nell’eziologia dei sintomi. È come se la sofferenza fisica avesse il sopravvento su quella psichica, rispetto alla quale il paziente ha spesso difficoltà a entrare in contatto. Tale condizione, se protratta nel tempo, può causare una frattura tra la dimensione somatica e psichica; una frattura di cui è importante occuparsi in maniera tempestiva. I sintomi possono mantenersi silenti o peggiorare con il tempo, creando talvolta anche disagio, imbarazzo e vergogna o reazioni psicopatologiche specifiche. Numerosi studi hanno evidenziato una maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore e un maggior numero di agiti anticonservativi nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto ai gruppi normativi (Nordenstrom, 2011, Chiesa et. al., 2013).

Le reazioni dipendono dalle caratteristiche personali del paziente, dall’insieme dei significati attribuiti alla malattia e, soprattutto, dalle condizioni di cura. L’impossibilità di dare senso, anche parziale o temporaneo, agli eventi, alle emozioni rappresenta una delle situazioni di massima sofferenza per l’essere umano. Tutto ciò può incidere negativamente sulla compliance alle cure.

Sono questi gli effetti collaterali della malattia cronica che, nel momento in cui fa irruzione nella vita di un individuo, ne altera e infrange gran parte dei precedenti equilibri, imponendo, accanto al depauperarsi della salute fisica, anche la messa in discussione dell’identità personale, la cui costruzione è un processo in continua evoluzione che dura per tutta la vita e permette, pur mantenendo un senso di sé stabile, di operare dei cambiamenti in relazione alle esperienze vissute nel corso della propria esistenza.

Le caratteristiche di continuità e pervasività di tale condizione comportano, infatti, l’innescarsi di un lungo e non facile processo, che va dalla simbolica separazione dell’immagine corporea antecedente alla malattia alla condizione di cronicità: è un’immagine che talvolta risulta essere danneggiata o modificata dall’affermarsi della malattia cronica. E questa condizione ha spesso un impatto sul corpo, sia in termini di aspetto sia di funzionalità. Ciò che ne consegue è allora un’importante trasformazione anche dello schema corporeo della persona stessa.

È quindi importante per il paziente saper riconosce re i limiti che talvolta la malattia impone e poter ridefinire, se necessario, alcuni aspetti della propria identità personale per evitare inutili ed estenuanti sfide contro se stessi, con l’unico obiettivo di rincorrere e ricalcare quell’immagine di sé che si aveva prima della diagnosi.

Tutto ciò comporta un nuovo modello d’integrità psico-fisica, in cui è necessario inserire non solo la diversa condizione del proprio corpo, ma anche la nuova dimensione psicologica che questo ha comportato, con evidenti conseguenze sulle dinamiche lavorative, relazionali, affettive e con notevoli ripercussioni sulla gestione dei legami con gli altri, amici e familiari. A tal proposito Trabucco nel 2003 scrive: “La persona umana […] quando è ammalata lo è nella sua totalità. Essa reagisce a qualunque modificazione del suo stato fisiologico di base. […] Qualsiasi evento morboso produce importanti reazioni emotive, psicologiche e sociali”.

Nonostante ogni malattia cronica abbia delle specifiche caratteristiche che la differenziano dalle altre, è possibile individuare un leitmotiv all’interno del quale si possono rintracciare le stesse implicazioni di tipo psicologico. In particolare emerge come il corpo sia, nelle sue diverse dimensioni, il maggiore elemento sul quale la malattia cronica agisce. Quella corporea è poi una dimensione importante dell’identità dell’essere umano: è infatti attraverso il corpo che le persone si relazionano con il proprio contesto sociale.

Diversi autori hanno evidenziato la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e dell’identità, che costituiscono aspetti centrali nell’esperienza di malattia (Kelly & Field, 1996). Le alterazioni delle funzioni corporee causate dalla malattia possono infatti comportare cambiamenti che interessano soprattutto queste due dimensioni. Tutto ciò conduce a una ridefinizione di sé, che è foriera di un profondo cambiamento nel modo di essere e di percepire sé stessi.

Siegel e Lekas (2002) rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti dei veri e propri cambiamenti, cercando di integrare la malattia nella propria vita e percezione di sé nel lungo periodo. Ne conseguono dei veri e propri cambiamenti in termini d’identità personale: cambiamenti che vanno nella direzione della normalizzazione delle proprie caratteristiche personali a dispetto delle trasformazioni causate dalla malattia (Borsari et. al., 2015).

La cronicità è talvolta associata a cambiamenti che possono interessare l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione, con il conseguente aumento dello stress, che può tradursi in veri e propri disturbi di tipo psicologico. La ragion d’essere di tali disturbi si àncora nei cambiamenti che si verificano nella vita quotidiana del paziente e che incidono in modo negativo sulla sua qualità, sul benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro o la necessità di cambiare attività, oppure il cambiamento del proprio ruolo sociale quale diretta conseguenza della malattia cronica che, in alcuni casi, impone al paziente un coatto confronto con la perdita o la riduzione della propria autonomia.

Tutto questo processo comporta evidenti ripercussioni sull’autostima, ma anche sul sistema familiare del paziente, che necessariamente deve trovare nuovi equilibri non sempre facili da raggiungere. L’individuo deve infatti scontrarsi con una malattia che permane nonostante le terapie atte a contenerla. Accade spesso che patologie anche molto diverse tra loro, a causa della loro imprevedibilità, pongano i pazienti di fronte alla difficoltà della gestione dei sintomi che queste comportano. Tutto ciò può avere un impatto profondo su quella che lo psicologo Bandura definì come “autoefficacia”, e cioè la consapevolezza di essere capaci di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale (Bandura, 2000).

Si tratta di quell’abilità che ciascuno di noi percepisce nel poter mettere in atto un particolare comportamento o di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di un’azione specifica (Maddux & Gosselin, 2003). Se si cala tutto ciò nella dimensione della malattia, ci si rende conto di quanto sia ancora più gravoso per il malato. Diventa allora fondamentale per il paziente accettare questo nuovo stato di salute per dare un senso a quello che sta accadendo: non è un percorso semplice, ma possibile, durante il quale imparare a valutare realisticamente cosa si può fare e cosa no, e a farlo in modo nuovo e diverso da prima. In questo percorso fatto di adattamenti e riadattamenti può accadere che il paziente cronico sperimenti vissuti quali tristezza, rabbia o solitudine.

È importante, sotto il profilo psicologico, che la persona li possa riconoscere ed elabori tutto ciò che prova, i suoi stati emotivi, siano essi di rabbia, tristezza, paura o altro ancora. È doveroso sottolineare in questa sede che si tratta di reazioni normali di cui è però fondamentale occuparsi affinché possano essere parte di una dimensione transitoria per il paziente, senza che si strutturino come stati affettivi duraturi. Il paziente non è però il solo che deve fare spazio alla sua condizione di cronicità, ma anche il suo nucleo familiare e lo stesso contesto sociale all’interno del quale egli vive, i quali devono confrontarsi con la sua dimensione della malattia, coi disagi e/o con i cambiamenti che questa comporta o potrebbe comportare.

Buona lettura

Cosa mi aiuta a vivere la vita con le mie malattie e sindrome croniche?

Non sempre funzionano, però ci provo.

Come molti altri nella mia situazione, ho dovuto imparare a convivere con delle malattie e sindrome debilitanti. La fibromialgia, l’Artrite Psoriasica, la Tiroidite di Hashimoto, la Sindrome di Reynaud, una Osteoartrite di 4° livello alle caviglie che ha danneggiato gradualmente cartilagine e tessuti circostanti, tanto da impedirmi di fare le mie belle passeggiate, la Spasmofilia, la Psoriasi, Neuropatie varie, carpale, ulnare e alle spalle, che hanno tutti influenzato il mio modo di vivere.

Cosa faccio per superare tutte le difficoltà legate a queste condizioni di cronicità?

Mi rilasso:

Non mi rilasso con nessuna tecnica nota a tanti di voi, come fare Yoga, Respirazione o altro, io mi rilasso leggendo e scrivendo, nonostante faccia moltissima fatica con le varie neuropatie. Ho provato anche a fare Pilates ma, non fanno per me, ho scelto quello che mi dava più risultati positivi per la mia persona, scrivere e leggere. Sono e rimango una donna dinamica e fare esercizi di Yoga, Respirazione e tutta quella roba li, non facevano per me; Ho desistito.

Assumo dei farmaci:

La cosa non mi fa piacere. Non faccio i salti di gioia, anche perché di “saltare”, nelle mie condizioni, non è il caso, però, li devo prendere. Non sono tanti. Assumo quelli per la fibromialgia e poi, ultimamente, perché i farmaci più comuni per l’Artrite Psoriasica non facevano nessun effetto, assumo un biologico. Mi attengo, rigorosamente, a quanto detto e prescritto dai medici, oltre, non vado, anche perché, diciamola tutta, per i dolori a me, non c’è farmaco che tenga;

Semplificare al massimo:

Una piccola confessione per questo concetto. Ho una macchina per caffè espresso, è costata poco, è di quelle che fanno il caffè come al bar. Parte del mio concetto di semplificazione al massimo, è mantenere solo le cose che mi rendono felice. Il caffè mi rende molto felice! A te che leggi, ti chiedo: Cosa ti rende felice? Tienilo e sbarazzati di tutto il resto, ti fa bene, credimi;

Socializzo:

Sono fortunata ad avere una meravigliosa cerchia di familiari e amici che capiscono quando cancello all’ultimo minuto o rifiuto delle buone opportunità perché so come probabilmente mi sentirei dopo. A volte sono in grado di partecipare e a volte no, però se una cosa mi interessa molto, ho adottato un sistema. Mi metto a letto e cerco di riposarmi, così da non stare malissimo i giorni a seguire. Lo faccio se ne vale la pena, se non vale la pena, desisto, tanto non muore nessuno;

Faccio volontariato:

Diversi anni fa, ebbi una bellissima idea, volevo far nascere un gruppo di auto aiuto sulla fibromialgia. Mi sono formata e oggi sono la facilitatrice di due gruppi di auto aiuto. E’ la seconda cosa più bella che io abbia mai realizzato, la prima è stata quella di aver messo al mondo un figlio, che adoro. La forza di andare avanti è in questi due gruppi, io trovo un po di forza nei gruppi. Nei gruppi di auto aiuto, le persone affette da una malattia cronica, possono trovare un sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la tua sofferenza e il tuo disagio, puoi condividere emozioni e preoccupazioni, puoi confrontarti sulla gestione della tua quotidianità, aumentando la sicurezza in te e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della tua condizione. Nei gruppi si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita; questa condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita. Sono gratuiti. I gruppi, sono luoghi dove nessuno è giudicato, nei gruppi si trovano quei sostegni reciproci che restituiscono fiducia.

Durante questa esperienza, ho trovato donne e uomini uguali a me, nei gruppi ci confrontiamo, organizziamo, creiamo, ci divertiamo, ridiamo e piangiamo, ed è tutto condiviso. Ho trovato nuovi amici, nuove emozioni. Non tutti i giorni sono uguali, però quelle energie che sprigiona il gruppo, mi fa stare bene, mi aiuta. Certo, non guarirò da tutte le malattie e sindrome elencate sopra ma, quel dolore, quella sofferenza è in egual misura ripartito in quel cerchio e ha meno peso per me e per tutti quelli all’interno di quel cerchio.

Sentiti gratificato:

È facile cadere nel buco dell’autocommiserazione. Succede, qualche volta, anche me, vi ricordo che sono un comune essere umano, succede anche a me. Ma alzarmi presto al mattino, perché non riesco a dormire la notte e leggendo articoli di ogni genere che mi aiutano a scrivere, comunicare qualcosa sui problemi della vita di un malato cronico; prendere il mio caffè come se stessi al bar, pensare ad organizzare la mia giornata, sarà schiocco ma, mi aiuta a non pensare ai tanti dolori che provo.

Questi sono solo alcune cosa mi aiutano a vivere la vita con le mie malattie e sindrome croniche. Non sempre funzionano, però ci provo. Un giorno, ne scelgo uno e lo seguo fino in fondo. Per me sono come una “cassetta degli attrezzi” che decido di usare quando ne ho più bisogno.

Ecco, voglio terminare con un suggerimento. Prepara anche tu la tua “cassetta degli attrezzi”, mettici dentro quello che tu ritieni giusto per te, per vivere al meglio la tua vita.

Non solo per vivere, ma per vivere bene .

Rosaria Mastronardo

Faber est suae quisque fortunae

ciascuno è artefice della propria sorte

Ogni persona è responsabile del proprio destino e della scelta della propria vita, giusto? Che strano però, non ricordo di aver scelto di vivere con delle malattie croniche!!! Questa cosa è strana, è divertente, si fa per dire. La maggior parte dei giorni, mi sento come se il destino si fosse scagliato contro di me. Vivo la mia vita con le mie compagne sempre presente, la fibromialgia e tutte e altre patologie croniche, ebbene si, diciamolo, sono una donna pluripatologica. Delle bastarde e subdole malattie delle quali nessuno si accorge mai, a volte anche chi ti sta accanto, ti incontra per caso, si accorgono che sono sola e godo di ottima salute. Molti medici non hanno rilevato la presenza di queste compagne di vita e nel caso della fibromialgia, l’hanno attribuita a ipocondria o ad una malattia mentale. La fibromialgia, è una delle malattie, poi ci sono le altre, artrite psoriasica, psoriasi e ancora ma, poi ci sono tutte quelle che sono legate solo alla fibromialgia, la lista è lunga: ansia, emicrania, nebbia del cervello, stanchezza cronica… l’elenco, ripeto, è lungo.

Noi fibromialgiche, forse è capitato a qualcuna di voi, siamo il bersaglio di barzellette, di scherni “sei solo vecchia“, “ormai, hai raggiunto una certa età”. Quelli che si rivolgono a noi in questo modo, non sanno che ci sono donne e anche uomini giovani che vivono con la fibromialgia fin dall’età adolescenziale. A quell’età invece, ti senti dire che sei pigra, che non hai voglia di fare nulla, che trovi sempre delle scuse. Non è così, ci vuole molta forza per realizzare quello che facciamo in un giorno. Non avete la più pallida idea di quello che proviamo; state zitti e non giudicateci. C’è chi prova di tutto per non sentire più dolore, quel dolore si, perché il dolore della fibromialgia, non è il solito dolore alla testa che ti prende perché, magari sei stanco, no, non è quello, oppure il dolore su tutto il corpo quando hai l’influenza. Il dolore fibromialgico è fluttuante, è bruciante, è tagliente, ti toglie il respiro.

Cerco di stare attenta a quello che mangio, cerco di dormire regolarmente, sto sempre attenta a non “strafare” anche perché se vado oltre le mie possibilità so benissimo che domani le mie compagne me la faranno pagare per quelle trasgressioni. Purtroppo, mi capita di pagare delle trasgressione senza accorgermene. Mi è capitato ieri. Mi ha chiamato una cara amica. Andiamo fino ai giardini, è uscito un bel sole, dai ci farà bene. Avevo voglia di uscire, avevo voglia di stare con la mia amica. Ci siamo incamminate verso i giardini ma, senza accorgersene, mentre si chiacchierava ci siamo allontanate troppo. Lei, stava bene. Io, no. Gli ho chiesto di tornare indietro, perché ho avvertito un forte dolore all’anca. Il ritorno verso casa è stato dolorosissimo. Mi sono buttata sul letto e svegliata più volte durante la notte dai dolori. Oggi al mio risveglio, mi sento tutta rotta come se mi avessero investita.

Lavoro a tempo pieno anche se da casa, sono in telelavoro. Questa modalità di lavoro mi aiuta molto ma, ho perso i contatti con i miei colleghi che sento solo al telefono oppure in una video chat, e credetemi, non è la stessa cosa. Ho la fortuna di fare volontariato, sono facilitatrice di gruppi di auto aiuto per la fibromialgia e questo mi ha permesso di “rinascere”. Non solo mi aiuto ma aiuto l’altro/a uguale a me. Con il volontariato ho evitato l’isolamento. Molte persone con la Fibromailgia, si isolano, perdono amici, in alcuni casi anche la famiglia. Fortunatamente ho una buona resilienza e ne vado fiera.

Sono padrona del mio destino? Sinceramente, non lo so. E’ un dubbio che mi perseguita. Sono, almeno credo, una donna intelligente, energica, e quindi capace di utilizzare al meglio ciò che la natura mi offre per essere artefice del mio destino. Nel mio destino è compresa anche la pluripatologia? A quanto pare, è così. La scienza non ha ancora capito perché ci ammaliamo, non ha ancora capito perché tanto dolore e tanti sintomi collegati alla fibromialgia mettono in ginocchio tanta gente. Mentre studiosi, chiusi nei loro laboratori, in giro per il mondo alla ricerca di un qualcosa che allievi le nostre sofferenze, io mi sento ancora in grado di fare qualcosa su questa terra e lo desidero fortissimamente, lo voglio ma, aiutatemi a farlo senza sentirmi come se un tir mi avesse preso in pieno.

Grazie

Rosaria Mastronardo

Quando una malattia cronica ti costringere a cambiare i tuoi progetti di vita.

Testimonianza di una di noi, Vittoria Campbell.

La vita è imprevedibile. Puoi completamente essere sano e in un minuto, improvvisamente, malato un minuto dopo. Almeno questo è quello che mi è capitato. Al mio primo anno di università, tutto è iniziato con un tipico caso di tendinite al braccio che non è mai migliorato nonostante facessi tutto quello mi suggerivano i dottori. Alla fine, tutto il mio corpo è stato coinvolto nel giro di un mese e pochi mesi dopo è iniziato il mio viaggio con la malattia cronica.

Il mio sogno è diventare un insegnante di musica, in particolare un direttore di orchestra e continuare ad insegnare flauto. Ho iniziato il college come specialista in educazione musicale e i miei professori hanno lavorato con me per assicurarsi che riuscissi a superare il programma di studi, ma quest’anno, il mio ultimo anno, ho dovuto prendere una decisione difficile. Continuo e rischio di fallire l’insegnamento? Oppure cambio la mia specializzazione e mi laureo e aspetto che la mia salute si stabilizzi per tornare a prendere la mia licenza di insegnamento?

Dopo aver parlato con molte persone, ho deciso per quest’ultima perché mi sentivo più in pace seguendo questa strada invece di sopportare lo stress e non farcela. Vedi, la mia malattia cronica in questo momento è la fibromialgia e ho anche la nevralgia occipitale, ma sono stata indirizzata da diversi medici perché c’è il sospetto che qui sia in gioco qualcos’altro perché non rispondo ai trattamenti che mi vengono dati. Con questo, ho la tendenza ad avere attacchi di vertigini e debolezza innescati dallo stare in piedi troppo a lungo, ma le vertigini sono anche innescate da suoni e ambienti forti. Devo sedermi su uno sgabello con un leggio quando suono in coro e quando suono il mio strumento, devo sperare per il meglio. A partire da ora, non sono adatta per insegnare spero solo che i medici capiscano cosa ho che non va e che mi rimettano in sesto, lo spero seriamente.

Con questa “deviazione” sulla strada della mia vita mi si aprono nuove porte, ma anche un leggero disagio perché devo aspettare molto di più affinché i miei sogni si realizzino. Durante questo periodo in cui cerco di capire cosa sta succedendo, sono in grado però di insegnare privatamente, ma spero di potermi riprendere e ottenere la mia licenza entro un anno.

Non aver paura di fare delle pause e prendere delle strade diverse nella tua vita se vivi con la malattia cronica. Non so dove mi condurrà questo nuovo percorso, ma so di sperare che i miei sogni si realizzino nonostante le mie malattie e che sarò in grado di incoraggiare gli altri con le mie stesse condizioni a inseguire i loro sogni, qualunque cosa accada. Anche se ci vuole più tempo del previsto.

A quanti di voi è capitato di aspettare oppure di cambiare completamento i tuoi progetti, i tuoi sogni? Abbiate pazienza, non correte, date tempo al tempo, cercate di capire cosa c’è che non va nella vostra salute e poi riprendete da dove avete lasciato. Ho cambiato anch’io ultimamente. Ero sempre in movimento, nel fare, nell’ideare, nel progettare, oggi no. La mia mente “viaggia” alla velocità della luce ma, il corpo mi fa capire che non posso. Sono ferma, la mente “galoppa” fortunatamente ma, io non corro più. Aspetto. Sapete una cosa? E’ bello anche aspettare.