L’inutilità del 12 maggio ( giornata mondiale delle fibromialgia) se resta solo un giorno.

Quelle inutili celebrazioni e i veri problemi insoluti

Nel giorno del 12 maggio, di ogni anno, si ricordano sempre 3 ricorrenze:

  • Giornata internazionale dell’infermiere, in memoria della nascita di Florence Nightingale
  • Giornata mondiale della fibromialgia
  • Giornata mondiale della sindrome da stanchezza cronica

Soffermiamoci sulla fibromialgia.

In passato, fin dal 1800, la malattia era già conosciuta, ma con tanti altri nomi: nel 1904 ad esempio la malattia venne chiamata Fibrosite da William Richard Gowers, che era un neurologo e pediatra inglese.

Federigo Sicuteri, medico toscano, individuò negli anni ’60 la figura della sindrome dolorosa ora nota come Fibromialgia. La denominò “Panalgesia” (pan=tutto, algesia=dolorabilità) e sottopose questa figura nosologica al Collegio della IASP, che riconobbe dignità di malattia a tale condizione, ma la ribattezzò col nome anglofono di “Fibromyalgia“, traducibile in italiano come Fibromialgia. Federigo Sicuteri ne aveva già messo in luce l’origine con sperimentazioni sull’animale. Il meccanismo d’origine è stato definito come serotonergico ed NMDA relato.

Il termine fibromialgia, deriva dal latino fibra e dal greco myo (muscolo) unito ad algos (dolore).

Fin dal 1992 la sindrome fibromialgica è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con la cosiddetta Dichiarazione di Copenhagen, ed è stata inclusa nella decima revisione dell’International statistical classification of diseases and related health problems (ICD-10), con il codice M79-7. Ad oggi, non è riconosciuta in Italia ma in altri paesi si.

Ci pensate? Si parlava di fibromialgia già dal 1800 e ad oggi se ne parla ancora senza prospettive certe per i soggetti che ne sono affetti.

Ogni anno, il 12 maggio, tutte le associazioni di malati fibromialgici, ricordano questa giornata con tante iniziative, bontà loro, e anche quest’anno, si ripete la stessa cosa con iniziative sempre lodevoli ma che non portano a nulla se non accendere i “riflettori” sulla malattia almeno per 24 ore.

Sapete quante e quali sono le giornate mondiali dedicate a qualcosa? La risposta arriva dall’Onu, che ha pubblicato il calendario completo degli eventi programmati tra l’1 gennaio e il 31 dicembre di ogni anno. In tutto sono 182. Praticamente un giorno ogni due celebriamo qualcosa.

Appare evidente che abbiamo troppe giornate da celebrare, molte delle quali su temi di scarsa rilevanza. Un conto è festeggiare la giornata delle torte (esiste davvero il 17 marzo!) un altro è rivolgere con serietà, tramite queste giornate mondiali, la nostra attenzione ai problemi dell’ambiente, della società e della salute da cui tutti dipendiamo.

Personalmente, essendo fibromialgica dal 2015 e ancora oggi ne soffro insieme a tante altre malattie croniche e concomitanti alla fibromialgia, ho pensato che non potevo non ricordare il 12 maggio per sempre ed è così che nel 2018, proprio nel giorno della giornata mondiale della fibromialgia nasceva il primo gruppo di auto aiuto, per il Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto, sulla fibromialgia, facilitato da me e dal nome: “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”.

Sono passati 5 anni. Ho fatto diverse cose belle nella mia vita ma questa del 12 maggio 2018 resterà a tutti. Tutti quelli che in questi anni hanno trovato nel gruppo qualcosa che ha fatto loro bene, ha tranquillizzato, ha fortificato ha dato qualcosa.

Nel gruppo di auto aiuto, “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”, ci confrontiamo e condividiamo le nostre esperienze, la nostra consapevolezza, il nostro modo di affrontare il dolore, il nostro vissuto come portatori di una malattia cronica invalidante che ti cambia la vita ma che nessuno vede con gli occhi, perché non hai segni sul corpo ma, nell’anima.

Per me, facilitare un gruppo, stare in un gruppo significava tante case ma una su tutte: non lasciare nella solitudine persone che come me soffrono di un dolore cronico.

Mi sono messa in gioco, per fare stare bene anche l’altro, uguale a me.

L’auto aiuto è un processo di condivisione volontaria di problemi comuni. E’ basato sul supporto reciproco, scambio di informazioni, abilità per l’affronto del problema, empatie a costruzione della resilienza. L’auto aiuto si occupa di costruire ambienti di supporto per permettere alle persone di avere più controllo sulla propria condizione di salute e meglio gestire le loro avversità. Per questo motivo, l’auto aiuto rappresenta un elemento base di un processo che mira a rafforzare la resilienza personale e comunitaria.

Il Glossario per la promozione della Salute dell’OMS spiega che l’auto-aiuto si lega alle azioni di personale laico nel muovere risorse in un processo che mira a promuovere, mantenere o ripristinare la salute di individui e della comunità.

I benefici del partecipare in gruppi di auto-aiuto sono numerosi, e il loro contributo nel benessere e la resilienza è stato documentato nella letteratura scientifica per almeno cinque decadi.

E’ bello ricordare quello che si è realizzato e voluto fortemente. Con me, nella realizzazione di questo gruppo di auto aiuto (oggi ne facilito 2), hanno collaborato tanti professionisti che hanno creduto in questo progetto e ad oggi mi sostengono ancora. Ci sono associazioni, piccole, medie e grandi che hanno fatto tanto per la sensibilizzazione di questa malattia cronica ed invalidante ma, quella più importante per noi malati, manca. Dopo il tanto fare, manca ancora un riconoscimento da parte dello Stato e manca soprattutto l’inserimento nei LEA (livelli essenziali di assistenza).

E’ pur vero che questa malattia non ha nessun marcatore che la identifichi con esattezza è vero anche che non c’è cura per essa ma, i malati esistono, i malati affetti da questa malattia sono inseriti nel registro della S.I.R. (Società Italiana di Reumatologia), cosa stiamo aspettando?

E intanto, un anno è passato. Si accendono i palazzi di viola, le fontane, si colorano le panchine dei giardini di viola, qualcuno ha chiesto anche l’aiuto di Papa Francesco per la fibromialgia ma, siamo ancora a 30 anni fa. Fermi, immobili nell’indifferenza delle istituzioni, della società, dello Stato.

Celebriamo pure, festeggiamo, coloriamoci tutti di viola ma, il dolore, quel dolore invisibile, che ti toglie il fiato e la forza di vivere, rimane.

Rosaria Mastronardo

Prendersi cura

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione.

La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Oggi, gli ultimi due capitoli: “Prendersi cura” e “Metafore nutrienti

Prendersi cura

Sono diversi i contesti in cui ci si può occupare di tutte quelle dinamiche di tipo psicologico cui si è fatto cenno fino a ora. Tra questi vi è senza dubbio quello del sostegno psicologico o della psicoterapia, e cioè di un percorso ad hoc in cui il paziente (o il nucleo familiare) riesca non solo a occuparsi del proprio mondo emotivo ma anche a riappropriarsi, magari in modo differente, della propria esistenza. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, anche tutta una serie di disagi psicologici legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che può essere diverso da prima. Può capitare che la sofferenza per i cambiamenti legati alla malattia impedisca alla persona di sfruttare pienamente le proprie potenzialità che restano come imprigionate all’interno di un groviglio emotivo. Nella dimensione intersoggettiva che viene costantemente costruita e co-costruita, il paziente e lo psicologo s’incontrano e si alleano per percorrere insieme un tratto di strada più o meno lungo, dov’è possibile sperimentare un nuovo sguardo su ciò che accade (o è accaduto) e con esso dare anche nuovi significati. Lo psicologo può essere uno degli interlocutori, anche se non il solo, con cui è possibile condividere la sofferenza e il dolore che caratterizzano il rapporto con la dimensione cronica della malattia, oltre che essere colui che si occupa degli eventuali disturbi di natura psicologica, delle difficoltà di adattamento, delle crisi emotive sia che esse riguardino il paziente, i caregiver o i familiari.

È importante che nel tempo il paziente, all’interno di uno spazio a lui dedicato, possa comprendere e diventare cosciente che la malattia è una dimensione della propria realtà, è un aspetto della propria vita come lo sono molti altri, ed è con tutti gli ambiti che la caratterizzano, siano essi limiti o risorse, che questa vita sarà vissuta d’ora in avanti. Questa consapevolezza aiuta il paziente anche a dare una nuova dislocazione alle proprie risorse ed energie su diverse aree della propria esistenza: è un’occasione per ripensare alla propria vita, alle relazioni interpersonali, agli obblighi e, soprattutto, alle proprie priorità. La pratica clinica ha messo in evidenza come, per molti pazienti, il confronto con la cronicità abbia permesso loro di entrare in contatto con parti di sé che ignoravano (Giuntoli, 2013). Mi sembra importante condividere alcuni frammenti dei colloqui che ho tratto dalle sedute coi miei pazienti in psicoterapia:

«Ora sono diventato consapevole dei miei limiti, imparando a capire fin dove potermi spingere e come raggiungere un determinato obiettivo, aggirando l’ostacolo della malattia».

«Mi fa vivere l’oggi intensamente e i colori sono più netti».

«Sì, inizialmente mi aveva indebolita ora invece mi ha resa più forte. Non mi sono fatta sconfiggere dalla malattia ma ho preso la mia vita in mano facendo le cose che tutti i comuni mortali fanno senza togliermi nulla».

Questi fotogrammi di vita vissuta ci insegnano un’importante verità: benessere non significa assenza di malattia fisica e/o psicologica, bensì il perseguimento di obiettivi e scopi di vita, pur in una condizione di malattia, o di disagio. In tali condizioni le risorse psicologiche assumono un ruolo ancora più centrale per la promozione di un benessere che va oltre, e al di là, delle difficoltà o dei limiti.

Metafore nutrienti

La parola ‘limite’, o ciò che noi consideriamo essere tale, mi richiama alla mente la mia infanzia. Quando ero bambina vivevo a Ostuni, un piccolo paese della Puglia, dai più conosciuta come la “città bianca”. Erano gli anni 80 e di fronte alla mia casa si trovava un negozio di elettrodomestici a conduzione familiare. Non mi riferisco di certo alle grandi catene di distribuzione a cui l’incedere veloce della tecnologia ci ha abituati, ma a quei negozietti che c’erano una volta e che vendevano un po’ di tutto: dal cavo per la TV allo spremiagrumi. In quest’accozzaglia di cose c’erano anche le lampadine, quelle a incandescenza col filamento di tungsteno, e i miei genitori mi mandavano a comprarle. Di preciso non mi ricordo quanti anni avevo, forse sette o otto, ma ricordo bene due cose: la prima, è che arrivavo a malapena al bancone del negozio; la seconda, invece, non riguarda me, ma la signorina che c’era dietro quello stesso bancone e che, prima di vendermi la lampadina, la provava su una pila. Era una di quelle pile piatte e rettangolari con due alette metalliche nella parte superiore. È ormai da tempo che non me ne capita una tra le mani, pensavo che non fossero più in produzione, invece le producono ancora. Documentandomi ho scoperto che la pila in questione era da 4.5 volt.

Dunque, per provare se la lampadina fosse funzionante, la base veniva messa a contatto con le due alette metalliche della pila. Se la lampadina si accendeva veniva venduta, altrimenti era sostituita. Che una lampadina si accendesse a contatto con una pila, incantava allora i miei occhi di bambina. Negli anni però la magia di allora mi ha fatto riflettere. Come è fatta una pila? Una pila è composta da un polo positivo e da uno negativo. Ho poi scoperto che l’aletta metallica che corrisponde al polo negativo della pila è più lunga di quella che corrisponde al polo positivo. Se io decidessi di sostituire il polo negativo con quello positivo, la lampadina si accenderebbe oppure no? No, la lampadina non si accenderebbe. Perché la lampadina si accenda sono necessari il polo positivo e quello negativo: non ce n’è uno più importante dell’altro, entrambi hanno la stessa identica funzione, ovvero far sì che la lampadina si accenda. Quel compito che mi veniva affidato da bambina, e che mi faceva sentire grande, mi ha regalato oggi, che lo sono davvero, un’importante consapevolezza: i nostri limiti, i nostri disagi, le nostre difficoltà, i nostri poli negativi sono importanti tanto quanto quelli positivi, come le nostre risorse e i nostri punti di forza, perché entrambi fanno sì che la nostra ‘lampadina’ si possa accendere. Allora il mio invito è proprio questo: abbiate cura di tutto ciò che vive dentro di voi, sia esso positivo o negativo, solo così la vostra ‘lampadina’ si potrà accendere!

Dottoressa Ilaria Bagnulo

Essere felice dopo una diagnosi di fibromialgia, è possibile?

Una testimonianza di Tammy Freeman che scrive delle sue esperienze in una community dando voce alla popolazione di malati cronici.

Tre giorni fa sono andata da un nuovo specialista, un reumatologo. Ero preoccupata, poiché questo sarebbe stato il mio settimo specialista, ma volevo davvero capire cosa stesse causando la mia stanchezza e il mio dolore diffuso. Mi era già stata diagnosticata l’Hashimoto, e questo da sola poteva causare affaticamento e dolore ma non ha spiegato completamente perché, ad esempio, posso dormire per 15 ore e svegliarmi ancora stanca e per niente riposata. Perché ho un dolore quotidiano che mi distrae dalle mie attività quotidiane. Perché il mio corpo si sente solo pesante come un’ancora.

Quindi, sono entrata nervosamente nell’ambulatorio del reumatologo e, per fortuna, mi ha preso sul serio, anche quando ho fatto una battuta imbarazzante sull’essere una ipocondriaca. Ha fatto un esame fisico completo, ha rivisto il mio precedente esame del sangue, ha discusso la storia familiare, e poi abbiamo avuto una lunga conversazione su come mi sento, quali sono i miei sintomi, cosa sto già facendo per controllare quei sintomi, e così via. Ha trascorso molto tempo con me. E sulla base di tutti questi elementi, e escludendo alcuni altri come la malattia di Lyme e l’artrite, ha detto che è fibromialgia.

Che peccato, mi disse il reumatologo e non capii subito, poi ridacchiò un po, tornando serio, aggiunse: “Leggerai che non è una vera malattia, ma lo è. È una vera malattia e non è nella tua testa”.

La mia reazione? Sono scoppiata in lacrime e senza fermarmi gli ho confidato quanto mi mancasse la persona che ero prima, quella che si poteva alzare alle 6 del mattino e che si teneva occupata fino alle 23 e che era in grado di rifare tutto il giorno successivo. Gli ho confidato della mia pigrizia insorta negli ultimi quattro anni, cioè quando sono iniziati i miei problemi di salute e come la mia salute emotiva fosse stata influenzata, e come mi sentivo in colpa per quello che vivevo. Ha ascoltato con calma e mi ha detto che questi sentimenti spesso sono causa della fibromialgia e mi ha detto con fermezza che non sono affatto pigra. Ha detto anche che, dal nostro colloquio, da quanto raccontato in quel giorno, che io ero in grado, per la determinazione, di prendermi cura di me stessa.

Ho lasciato quell’ambulatorio sentendomi rinata. Certo, faceva piacere che tutto quanto mi stesse capitanando avesse un nome e non fosse frutto della mia pigrizia o ipocondria.

Anche giorni dopo, ho continuato a provare un sollievo assoluto. Ho un nome per la stanchezza travolgente e ho una ragione per cui i miei fianchi, la schiena, le spalle fanno costantemente male e ho quelle sensazioni di spilli e aghi nelle mie mani. Ancora non cambia nulla ma di certo non è nella mia testa, non è un riflesso di chi sono, non è un fallimento da parte mia, non è a causa di qualcosa che sto facendo male o non facendo bene. Non l’ho fatto a me stessa. Sono sollevata dal fatto che sebbene questa sia una malattia che dura tutta la vita, posso smettere di inseguire specialisti e nuovi esami del sangue e infinite ricerche su Google e posso smettere di cercare di capire tutto: Perché mi fa male la testa? Sono disidratata? È un mal di testa da stress? Mi fa male la schiena? Ho esagerato quando sono andato a fare la spesa e ho pulito la casa lo stesso giorno? Perché dormo così tanto? Sono depressa? non mi sento depressa, ma dormo mezza giornata, quindi forse ho bisogno di parlare con qualcuno. Perché la mia mano è di nuovo formicolante? Sto bene. Non è nella mia testa. C’è una ragione per tutto questo. Non può essere curato, ma può essere controllato, ma soprattutto, non è nella mia testa e posso smettere di cercare costantemente risposte. Ora, basta.

E sono grata per questo. Non fraintendetemi. Non lo augurerei a nessuno. Ma è un sollievo avere una ragione medica, scientifica, ufficiale per tutti questi sintomi.. Non è nella mia testa. Sto andanda avanti. Posso prendermi cura di me stessa, e questo è un enorme sollievo. Quindi oggi sono felice.

Devo andare avanti, andiamo avanti.

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica.

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo è il primo di oggi.

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Quando si giunge finalmente alla diagnosi, questa può paradossalmente generare un momentaneo sollievo, perché il paziente si sente finalmente legittimato agli occhi degli altri nella sua condizione di sofferenza e malattia. Quella consolazione temporanea cede però ben presto il posto ad un coacervo di emozioni. Scoprire di essere ammalato, e di esserlo quasi certamente per sempre, crea comprensibilmente uno shock, una sorta di lacerazione interna, che fa vacillare il senso di certezza che fino a quel momento aveva accompagnato il percorso di crescita personale.

Ogni individuo ha infatti un personale e soggettivo modo di elaborare la malattia che l’ha colpito. La perdita dello stato di salute è infatti paragonabile a un vero e proprio “lutto” e per certi versi sembra ricalcare le fasi della sua elaborazione. La diagnosi, dopo quel momentaneo sollievo, potrebbe comportare nel paziente il manifestarsi di profonde reazioni emotive; se all’inizio possono portare a dissimulare comportamenti più o meno congrui a quanto sta accadendo, successivamente ci può essere la messa in campo di forti meccanismi difensivi, come la negazione, la proiezione, la regressione ma anche la razionalizzazione.

Il “lutto” genera una sorta di frattura tra ciò che si era prima che insorgesse la malattia e ciò che si è dopo; si tratta di uno spartiacque temporale che impone al paziente un confronto rispetto al proprio passato, sia esso più o meno recente, e un presente fatto di cambiamenti, di nuovi adattamenti e riadattamenti. È un percorso in divenire in cui il paziente deve imparare ad accogliere nella sua quotidianità, oltre agli aspetti prettamente organici della sua malattia, anche tutta una serie di nuove variabili con cui deve imparare a confrontarsi. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, una serie di disagi psicologici, legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che potrebbe essere diverso da ciò che è stato fino a quel momento.

Si tratta di un processo complesso in cui può anche accadere che il paziente, immerso nell’affannosa ricerca della dimensione in cui collocare il proprio malessere, ponga maggiormente la propria attenzione alla componente fisica del proprio disagio, focalizzandosi esclusivamente su tutti quegli aspetti negativi che la malattia ha comportato ed in particolar modo, rapito dall’ansia anticipatoria, su tutti quei progetti o attività che la nuova condizione di salute potrebbe non permettergli più di svolgere.

Tutto ciò lasciando in secondo piano gli aspetti psicologici implicati nell’eziologia dei sintomi. È come se la sofferenza fisica avesse il sopravvento su quella psichica, rispetto alla quale il paziente ha spesso difficoltà a entrare in contatto. Tale condizione, se protratta nel tempo, può causare una frattura tra la dimensione somatica e psichica; una frattura di cui è importante occuparsi in maniera tempestiva. I sintomi possono mantenersi silenti o peggiorare con il tempo, creando talvolta anche disagio, imbarazzo e vergogna o reazioni psicopatologiche specifiche. Numerosi studi hanno evidenziato una maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore e un maggior numero di agiti anticonservativi nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto ai gruppi normativi (Nordenstrom, 2011, Chiesa et. al., 2013).

Le reazioni dipendono dalle caratteristiche personali del paziente, dall’insieme dei significati attribuiti alla malattia e, soprattutto, dalle condizioni di cura. L’impossibilità di dare senso, anche parziale o temporaneo, agli eventi, alle emozioni rappresenta una delle situazioni di massima sofferenza per l’essere umano. Tutto ciò può incidere negativamente sulla compliance alle cure.

Sono questi gli effetti collaterali della malattia cronica che, nel momento in cui fa irruzione nella vita di un individuo, ne altera e infrange gran parte dei precedenti equilibri, imponendo, accanto al depauperarsi della salute fisica, anche la messa in discussione dell’identità personale, la cui costruzione è un processo in continua evoluzione che dura per tutta la vita e permette, pur mantenendo un senso di sé stabile, di operare dei cambiamenti in relazione alle esperienze vissute nel corso della propria esistenza.

Le caratteristiche di continuità e pervasività di tale condizione comportano, infatti, l’innescarsi di un lungo e non facile processo, che va dalla simbolica separazione dell’immagine corporea antecedente alla malattia alla condizione di cronicità: è un’immagine che talvolta risulta essere danneggiata o modificata dall’affermarsi della malattia cronica. E questa condizione ha spesso un impatto sul corpo, sia in termini di aspetto sia di funzionalità. Ciò che ne consegue è allora un’importante trasformazione anche dello schema corporeo della persona stessa.

È quindi importante per il paziente saper riconosce re i limiti che talvolta la malattia impone e poter ridefinire, se necessario, alcuni aspetti della propria identità personale per evitare inutili ed estenuanti sfide contro se stessi, con l’unico obiettivo di rincorrere e ricalcare quell’immagine di sé che si aveva prima della diagnosi.

Tutto ciò comporta un nuovo modello d’integrità psico-fisica, in cui è necessario inserire non solo la diversa condizione del proprio corpo, ma anche la nuova dimensione psicologica che questo ha comportato, con evidenti conseguenze sulle dinamiche lavorative, relazionali, affettive e con notevoli ripercussioni sulla gestione dei legami con gli altri, amici e familiari. A tal proposito Trabucco nel 2003 scrive: “La persona umana […] quando è ammalata lo è nella sua totalità. Essa reagisce a qualunque modificazione del suo stato fisiologico di base. […] Qualsiasi evento morboso produce importanti reazioni emotive, psicologiche e sociali”.

Nonostante ogni malattia cronica abbia delle specifiche caratteristiche che la differenziano dalle altre, è possibile individuare un leitmotiv all’interno del quale si possono rintracciare le stesse implicazioni di tipo psicologico. In particolare emerge come il corpo sia, nelle sue diverse dimensioni, il maggiore elemento sul quale la malattia cronica agisce. Quella corporea è poi una dimensione importante dell’identità dell’essere umano: è infatti attraverso il corpo che le persone si relazionano con il proprio contesto sociale.

Diversi autori hanno evidenziato la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e dell’identità, che costituiscono aspetti centrali nell’esperienza di malattia (Kelly & Field, 1996). Le alterazioni delle funzioni corporee causate dalla malattia possono infatti comportare cambiamenti che interessano soprattutto queste due dimensioni. Tutto ciò conduce a una ridefinizione di sé, che è foriera di un profondo cambiamento nel modo di essere e di percepire sé stessi.

Siegel e Lekas (2002) rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti dei veri e propri cambiamenti, cercando di integrare la malattia nella propria vita e percezione di sé nel lungo periodo. Ne conseguono dei veri e propri cambiamenti in termini d’identità personale: cambiamenti che vanno nella direzione della normalizzazione delle proprie caratteristiche personali a dispetto delle trasformazioni causate dalla malattia (Borsari et. al., 2015).

La cronicità è talvolta associata a cambiamenti che possono interessare l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione, con il conseguente aumento dello stress, che può tradursi in veri e propri disturbi di tipo psicologico. La ragion d’essere di tali disturbi si àncora nei cambiamenti che si verificano nella vita quotidiana del paziente e che incidono in modo negativo sulla sua qualità, sul benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro o la necessità di cambiare attività, oppure il cambiamento del proprio ruolo sociale quale diretta conseguenza della malattia cronica che, in alcuni casi, impone al paziente un coatto confronto con la perdita o la riduzione della propria autonomia.

Tutto questo processo comporta evidenti ripercussioni sull’autostima, ma anche sul sistema familiare del paziente, che necessariamente deve trovare nuovi equilibri non sempre facili da raggiungere. L’individuo deve infatti scontrarsi con una malattia che permane nonostante le terapie atte a contenerla. Accade spesso che patologie anche molto diverse tra loro, a causa della loro imprevedibilità, pongano i pazienti di fronte alla difficoltà della gestione dei sintomi che queste comportano. Tutto ciò può avere un impatto profondo su quella che lo psicologo Bandura definì come “autoefficacia”, e cioè la consapevolezza di essere capaci di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale (Bandura, 2000).

Si tratta di quell’abilità che ciascuno di noi percepisce nel poter mettere in atto un particolare comportamento o di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di un’azione specifica (Maddux & Gosselin, 2003). Se si cala tutto ciò nella dimensione della malattia, ci si rende conto di quanto sia ancora più gravoso per il malato. Diventa allora fondamentale per il paziente accettare questo nuovo stato di salute per dare un senso a quello che sta accadendo: non è un percorso semplice, ma possibile, durante il quale imparare a valutare realisticamente cosa si può fare e cosa no, e a farlo in modo nuovo e diverso da prima. In questo percorso fatto di adattamenti e riadattamenti può accadere che il paziente cronico sperimenti vissuti quali tristezza, rabbia o solitudine.

È importante, sotto il profilo psicologico, che la persona li possa riconoscere ed elabori tutto ciò che prova, i suoi stati emotivi, siano essi di rabbia, tristezza, paura o altro ancora. È doveroso sottolineare in questa sede che si tratta di reazioni normali di cui è però fondamentale occuparsi affinché possano essere parte di una dimensione transitoria per il paziente, senza che si strutturino come stati affettivi duraturi. Il paziente non è però il solo che deve fare spazio alla sua condizione di cronicità, ma anche il suo nucleo familiare e lo stesso contesto sociale all’interno del quale egli vive, i quali devono confrontarsi con la sua dimensione della malattia, coi disagi e/o con i cambiamenti che questa comporta o potrebbe comportare.

Buona lettura

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.