Prendersi cura

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione.

La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Oggi, gli ultimi due capitoli: “Prendersi cura” e “Metafore nutrienti

Prendersi cura

Sono diversi i contesti in cui ci si può occupare di tutte quelle dinamiche di tipo psicologico cui si è fatto cenno fino a ora. Tra questi vi è senza dubbio quello del sostegno psicologico o della psicoterapia, e cioè di un percorso ad hoc in cui il paziente (o il nucleo familiare) riesca non solo a occuparsi del proprio mondo emotivo ma anche a riappropriarsi, magari in modo differente, della propria esistenza. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, anche tutta una serie di disagi psicologici legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che può essere diverso da prima. Può capitare che la sofferenza per i cambiamenti legati alla malattia impedisca alla persona di sfruttare pienamente le proprie potenzialità che restano come imprigionate all’interno di un groviglio emotivo. Nella dimensione intersoggettiva che viene costantemente costruita e co-costruita, il paziente e lo psicologo s’incontrano e si alleano per percorrere insieme un tratto di strada più o meno lungo, dov’è possibile sperimentare un nuovo sguardo su ciò che accade (o è accaduto) e con esso dare anche nuovi significati. Lo psicologo può essere uno degli interlocutori, anche se non il solo, con cui è possibile condividere la sofferenza e il dolore che caratterizzano il rapporto con la dimensione cronica della malattia, oltre che essere colui che si occupa degli eventuali disturbi di natura psicologica, delle difficoltà di adattamento, delle crisi emotive sia che esse riguardino il paziente, i caregiver o i familiari.

È importante che nel tempo il paziente, all’interno di uno spazio a lui dedicato, possa comprendere e diventare cosciente che la malattia è una dimensione della propria realtà, è un aspetto della propria vita come lo sono molti altri, ed è con tutti gli ambiti che la caratterizzano, siano essi limiti o risorse, che questa vita sarà vissuta d’ora in avanti. Questa consapevolezza aiuta il paziente anche a dare una nuova dislocazione alle proprie risorse ed energie su diverse aree della propria esistenza: è un’occasione per ripensare alla propria vita, alle relazioni interpersonali, agli obblighi e, soprattutto, alle proprie priorità. La pratica clinica ha messo in evidenza come, per molti pazienti, il confronto con la cronicità abbia permesso loro di entrare in contatto con parti di sé che ignoravano (Giuntoli, 2013). Mi sembra importante condividere alcuni frammenti dei colloqui che ho tratto dalle sedute coi miei pazienti in psicoterapia:

«Ora sono diventato consapevole dei miei limiti, imparando a capire fin dove potermi spingere e come raggiungere un determinato obiettivo, aggirando l’ostacolo della malattia».

«Mi fa vivere l’oggi intensamente e i colori sono più netti».

«Sì, inizialmente mi aveva indebolita ora invece mi ha resa più forte. Non mi sono fatta sconfiggere dalla malattia ma ho preso la mia vita in mano facendo le cose che tutti i comuni mortali fanno senza togliermi nulla».

Questi fotogrammi di vita vissuta ci insegnano un’importante verità: benessere non significa assenza di malattia fisica e/o psicologica, bensì il perseguimento di obiettivi e scopi di vita, pur in una condizione di malattia, o di disagio. In tali condizioni le risorse psicologiche assumono un ruolo ancora più centrale per la promozione di un benessere che va oltre, e al di là, delle difficoltà o dei limiti.

Metafore nutrienti

La parola ‘limite’, o ciò che noi consideriamo essere tale, mi richiama alla mente la mia infanzia. Quando ero bambina vivevo a Ostuni, un piccolo paese della Puglia, dai più conosciuta come la “città bianca”. Erano gli anni 80 e di fronte alla mia casa si trovava un negozio di elettrodomestici a conduzione familiare. Non mi riferisco di certo alle grandi catene di distribuzione a cui l’incedere veloce della tecnologia ci ha abituati, ma a quei negozietti che c’erano una volta e che vendevano un po’ di tutto: dal cavo per la TV allo spremiagrumi. In quest’accozzaglia di cose c’erano anche le lampadine, quelle a incandescenza col filamento di tungsteno, e i miei genitori mi mandavano a comprarle. Di preciso non mi ricordo quanti anni avevo, forse sette o otto, ma ricordo bene due cose: la prima, è che arrivavo a malapena al bancone del negozio; la seconda, invece, non riguarda me, ma la signorina che c’era dietro quello stesso bancone e che, prima di vendermi la lampadina, la provava su una pila. Era una di quelle pile piatte e rettangolari con due alette metalliche nella parte superiore. È ormai da tempo che non me ne capita una tra le mani, pensavo che non fossero più in produzione, invece le producono ancora. Documentandomi ho scoperto che la pila in questione era da 4.5 volt.

Dunque, per provare se la lampadina fosse funzionante, la base veniva messa a contatto con le due alette metalliche della pila. Se la lampadina si accendeva veniva venduta, altrimenti era sostituita. Che una lampadina si accendesse a contatto con una pila, incantava allora i miei occhi di bambina. Negli anni però la magia di allora mi ha fatto riflettere. Come è fatta una pila? Una pila è composta da un polo positivo e da uno negativo. Ho poi scoperto che l’aletta metallica che corrisponde al polo negativo della pila è più lunga di quella che corrisponde al polo positivo. Se io decidessi di sostituire il polo negativo con quello positivo, la lampadina si accenderebbe oppure no? No, la lampadina non si accenderebbe. Perché la lampadina si accenda sono necessari il polo positivo e quello negativo: non ce n’è uno più importante dell’altro, entrambi hanno la stessa identica funzione, ovvero far sì che la lampadina si accenda. Quel compito che mi veniva affidato da bambina, e che mi faceva sentire grande, mi ha regalato oggi, che lo sono davvero, un’importante consapevolezza: i nostri limiti, i nostri disagi, le nostre difficoltà, i nostri poli negativi sono importanti tanto quanto quelli positivi, come le nostre risorse e i nostri punti di forza, perché entrambi fanno sì che la nostra ‘lampadina’ si possa accendere. Allora il mio invito è proprio questo: abbiate cura di tutto ciò che vive dentro di voi, sia esso positivo o negativo, solo così la vostra ‘lampadina’ si potrà accendere!

Dottoressa Ilaria Bagnulo