Le difficoltà di definire, esprimere il proprio dolore cronico.

Il dolore cronico è definito come il “dolore che si protrae oltre i tempi normali di guarigione di una lesione o di un’infiammazione, abitualmente 3-6 mesi, e che perdura per anni”.

Il dolore cronico è stato riconosciuto come una vera e propria patologia in sé per le conseguenze invalidanti che comporta per la persona che ne soffre, dal punto di vista fisico, psichico e socio-relazionale; esso infatti compromette qualsiasi attività quotidiana generando depressione, senso di sfiducia e malessere.

Mal di schiena, emicrania, endometriosi, vulvodinia, fibromialgia, artrosi, nevralgie, esiti da trauma, herpes zoster, sono solo alcuni nomi di malattie caratterizzate dalla presenza di dolore cronico che, se non viene diagnosticato e curato in modo adeguato, non abbandona più le persone che ne sono colpite e che devono viverne la sofferenza.

Il dolore cronico interessa tutte le fasce d’età con una maggiore prevalenza nelle donne ed è stato riconosciuto come una delle cause principali di consultazione medica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità lo ha identificato come uno dei maggiori problemi mondiali di salute pubblica.

Una volta in rete qualcuno ha scritto: Cosa puoi fare quando il dolore cronico ti attanaglia?

  • Subirlo;
  • Trascinarlo;
  • Analizzarlo;
  • Imparare da esso;
  • Accettarlo;
  • Trasformarlo.

Analizziamo queste ipotetiche “soluzioni”.

  • Subirlo: E’ da pazzi subire il dolore cronico. Non si può. Non bisogna subirlo ma combatterlo. Il modo lo puoi trovare solo tu, tu che lo senti. Non è facile, per carità ma, subirlo è da pazzi;
  • Trascinarlo: Inteso come portarselo dietro sempre? Ma come si fa? No, il dolore cronico non lo si può trascinare, è impensabile;
  • Analizzarlo: Anche questa non l’ho capita. Io che soffro di dolore cronico mi devo mettere ad analizzarlo? Vuol dire che devo studiarlo oppure mi devo spremere le meningi per capire perché cazzo soffro così tanto? Se sei sana, mettiti pure a pensare perché hai tanto dolore ma, viceversa, se hai tante malattie croniche, autoimmuni, degenerative, che cazzo analizzi? Sei una malata cronica, punto;
  • Imparare da esso: Ho imparato tanto dal dolore cronico, tantissimo. Una cosa ho capito. Non c’è nulla da fare, non passa;
  • Accettarlo: Quante volte ho accettato il dolore cronico. Ogni volta e tutte le volte che mi diagnosticavano una nuova malattia, tutte le volte. Accetta oggi, accetta domani, ho sempre accettato.
  • Trasformarlo: Abracadabra………..Anche questo. Trasformarlo. L’ho fatto, si che l’ho fatto. L’ho fatto tutte le volte che ho preso consapevolezza delle mie patologie e mi sono messa in gioco. Ho cercato di dare una mano a quelli che come me, avevano lo stesso problema, ho sensibilizzato la malattia che mi aveva colpito, ho scritto, letto e mi sono informata. Ho fatto tante di quelle cose che ho un file con tutti gli eventi, incontri, seminari a cui ho partecipato e ho organizzato. L’ho fatto per me e per gli altri. L’ho fatto per non pensare al dolore, per non sentirlo. In alcuni momenti ti sembra di non averlo; minuti, secondi, attimi ma, è lì. Ecco che si sente. Si sente, lo senti ma, gli altri non lo vedono il tuo dolore. Non c’è cosa più straziante nello stare male, nel vivere con i dolori cronici delle tue malattie e sentirti dire: “Ti vedo bene”.

Il dolore cronico presuppone un dolore continuo e straziante, che a volte non può nemmeno essere spiegato a sufficienza.

Ho capito, nel corso di questi anni, sono quasi 8 anni che soffro di dolore cronico, che il dolore non può essere “misurato” con certezza. La valutazione del dolore dipende dalla descrizione verbale, dalle espressioni non verbali, da test specifici e dalla nostra empatia. Da questa prospettiva il dolore è una questione di esperienza soggettiva e di comunicazione. Diversi fenomeni (ad es. dolore da arto fantasma, analgesia da stress, effetti antidolorifici del rilassamento, ipnosi, placebo, ecc., dolore nonostante una lesione inesistente) mostrano ovviamente che fattori psicologici come distrazione, rilassamento, paura, depressione, precedenti esperienze di dolore così come le influenze familiari e culturali modulano il modo in cui il dolore viene vissuto, raccontato e descritto.

Il problema della definizione del dolore solleva questioni filosoficamente rilevanti, legate alla difficoltà irriducibile di voler rendere intersoggettivamente comprensibile l’esperienza soggettiva del dolore. È una questione simile alla domanda se tutti vedano un certo colore allo stesso modo, afferma Laura Kolbe,(scrittrice e poetessa che pratica medicina ed etica medica presso il NewYork-Presbyterian/Weill Cornell Medical Center) “ma con una posta in gioco più alta: che il dolore di una persona sia comunicabile e commisurato a quello di un’altra, può influenzare la nostra predisposizione a sentirci solidali gli uni verso gli altri emotivamente, socialmente e politicamente”.

La difficoltà per gli operatori sanitari è ancora maggiore dal momento che la relativa ineffabilità del dolore li rende in un certo senso esterni rispetto a esso ma nella posizione di dover prestare soccorso e stabilire delle cure.

Da tempo, per cercare di superare i limiti noti delle scale da 1 a 10, alcuni strumenti clinici utilizzati per la valutazione del dolore si concentrano sulla terminologia più che sui numeri. Il Questionario sul dolore di McGill, sviluppato negli anni Settanta da Melzack alla McGill University a Montréal, è considerato un modo di fornire tramite aggettivi-descrittori un rapporto più strutturato e statisticamente utile sul dolore, valutandone i livelli e l’evoluzione nel corso del tempo, in modo da determinare l’efficacia di ogni intervento. Ai pazienti intervistati viene chiesto di scegliere le parole più adatte in un insieme molto vasto di aggettivi, tra cui “pizzicante”, “pulsante”, “fulmineo”, “tagliente” e “crampiforme”.

Il vantaggio auspicabile in questo tipo di espansioni del vocabolario clinico, conclude Laura Kolbe, è che portino a “un analogo allargamento dell’immaginazione clinica quando si tratta di ciò che i pazienti provano”.

Se in Italia avessimo il questionario di McGill ed io dovessi utilizzarlo, in questo momento, oggi, non mi basterebbero gli aggetti: “pizzicante”, “pulsante”, “fulmineo”, “tagliente” e “crampiforme”, aggiungerei un avverbio e un aggettivo: “MALEDETTAMENTE INSOPPORTABILI

L’inutilità del 12 maggio ( giornata mondiale delle fibromialgia) se resta solo un giorno.

Quelle inutili celebrazioni e i veri problemi insoluti

Nel giorno del 12 maggio, di ogni anno, si ricordano sempre 3 ricorrenze:

  • Giornata internazionale dell’infermiere, in memoria della nascita di Florence Nightingale
  • Giornata mondiale della fibromialgia
  • Giornata mondiale della sindrome da stanchezza cronica

Soffermiamoci sulla fibromialgia.

In passato, fin dal 1800, la malattia era già conosciuta, ma con tanti altri nomi: nel 1904 ad esempio la malattia venne chiamata Fibrosite da William Richard Gowers, che era un neurologo e pediatra inglese.

Federigo Sicuteri, medico toscano, individuò negli anni ’60 la figura della sindrome dolorosa ora nota come Fibromialgia. La denominò “Panalgesia” (pan=tutto, algesia=dolorabilità) e sottopose questa figura nosologica al Collegio della IASP, che riconobbe dignità di malattia a tale condizione, ma la ribattezzò col nome anglofono di “Fibromyalgia“, traducibile in italiano come Fibromialgia. Federigo Sicuteri ne aveva già messo in luce l’origine con sperimentazioni sull’animale. Il meccanismo d’origine è stato definito come serotonergico ed NMDA relato.

Il termine fibromialgia, deriva dal latino fibra e dal greco myo (muscolo) unito ad algos (dolore).

Fin dal 1992 la sindrome fibromialgica è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con la cosiddetta Dichiarazione di Copenhagen, ed è stata inclusa nella decima revisione dell’International statistical classification of diseases and related health problems (ICD-10), con il codice M79-7. Ad oggi, non è riconosciuta in Italia ma in altri paesi si.

Ci pensate? Si parlava di fibromialgia già dal 1800 e ad oggi se ne parla ancora senza prospettive certe per i soggetti che ne sono affetti.

Ogni anno, il 12 maggio, tutte le associazioni di malati fibromialgici, ricordano questa giornata con tante iniziative, bontà loro, e anche quest’anno, si ripete la stessa cosa con iniziative sempre lodevoli ma che non portano a nulla se non accendere i “riflettori” sulla malattia almeno per 24 ore.

Sapete quante e quali sono le giornate mondiali dedicate a qualcosa? La risposta arriva dall’Onu, che ha pubblicato il calendario completo degli eventi programmati tra l’1 gennaio e il 31 dicembre di ogni anno. In tutto sono 182. Praticamente un giorno ogni due celebriamo qualcosa.

Appare evidente che abbiamo troppe giornate da celebrare, molte delle quali su temi di scarsa rilevanza. Un conto è festeggiare la giornata delle torte (esiste davvero il 17 marzo!) un altro è rivolgere con serietà, tramite queste giornate mondiali, la nostra attenzione ai problemi dell’ambiente, della società e della salute da cui tutti dipendiamo.

Personalmente, essendo fibromialgica dal 2015 e ancora oggi ne soffro insieme a tante altre malattie croniche e concomitanti alla fibromialgia, ho pensato che non potevo non ricordare il 12 maggio per sempre ed è così che nel 2018, proprio nel giorno della giornata mondiale della fibromialgia nasceva il primo gruppo di auto aiuto, per il Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto, sulla fibromialgia, facilitato da me e dal nome: “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”.

Sono passati 5 anni. Ho fatto diverse cose belle nella mia vita ma questa del 12 maggio 2018 resterà a tutti. Tutti quelli che in questi anni hanno trovato nel gruppo qualcosa che ha fatto loro bene, ha tranquillizzato, ha fortificato ha dato qualcosa.

Nel gruppo di auto aiuto, “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”, ci confrontiamo e condividiamo le nostre esperienze, la nostra consapevolezza, il nostro modo di affrontare il dolore, il nostro vissuto come portatori di una malattia cronica invalidante che ti cambia la vita ma che nessuno vede con gli occhi, perché non hai segni sul corpo ma, nell’anima.

Per me, facilitare un gruppo, stare in un gruppo significava tante case ma una su tutte: non lasciare nella solitudine persone che come me soffrono di un dolore cronico.

Mi sono messa in gioco, per fare stare bene anche l’altro, uguale a me.

L’auto aiuto è un processo di condivisione volontaria di problemi comuni. E’ basato sul supporto reciproco, scambio di informazioni, abilità per l’affronto del problema, empatie a costruzione della resilienza. L’auto aiuto si occupa di costruire ambienti di supporto per permettere alle persone di avere più controllo sulla propria condizione di salute e meglio gestire le loro avversità. Per questo motivo, l’auto aiuto rappresenta un elemento base di un processo che mira a rafforzare la resilienza personale e comunitaria.

Il Glossario per la promozione della Salute dell’OMS spiega che l’auto-aiuto si lega alle azioni di personale laico nel muovere risorse in un processo che mira a promuovere, mantenere o ripristinare la salute di individui e della comunità.

I benefici del partecipare in gruppi di auto-aiuto sono numerosi, e il loro contributo nel benessere e la resilienza è stato documentato nella letteratura scientifica per almeno cinque decadi.

E’ bello ricordare quello che si è realizzato e voluto fortemente. Con me, nella realizzazione di questo gruppo di auto aiuto (oggi ne facilito 2), hanno collaborato tanti professionisti che hanno creduto in questo progetto e ad oggi mi sostengono ancora. Ci sono associazioni, piccole, medie e grandi che hanno fatto tanto per la sensibilizzazione di questa malattia cronica ed invalidante ma, quella più importante per noi malati, manca. Dopo il tanto fare, manca ancora un riconoscimento da parte dello Stato e manca soprattutto l’inserimento nei LEA (livelli essenziali di assistenza).

E’ pur vero che questa malattia non ha nessun marcatore che la identifichi con esattezza è vero anche che non c’è cura per essa ma, i malati esistono, i malati affetti da questa malattia sono inseriti nel registro della S.I.R. (Società Italiana di Reumatologia), cosa stiamo aspettando?

E intanto, un anno è passato. Si accendono i palazzi di viola, le fontane, si colorano le panchine dei giardini di viola, qualcuno ha chiesto anche l’aiuto di Papa Francesco per la fibromialgia ma, siamo ancora a 30 anni fa. Fermi, immobili nell’indifferenza delle istituzioni, della società, dello Stato.

Celebriamo pure, festeggiamo, coloriamoci tutti di viola ma, il dolore, quel dolore invisibile, che ti toglie il fiato e la forza di vivere, rimane.

Rosaria Mastronardo

La fibromialgia e i numeri

per la serie, per citare Marco Travaglio: “Ci pisciano in testa e ci dicono che piove

Dopo l’ennesimo post annunciato su uno dei Social Network più popolari, per l’inaugurazione della nuova panchina viola e per l’ennesimo annuncio sull’illuminazione dei più famosi monumenti, palazzi e fontane del nostro bel paese, sempre di viola, previsti per la giornata mondiale della Fibromialgia, cioè, per il giorno 12 maggio 2023, ogni anno la stessa solfa, e nauseata, disgustata, ho fatto una piccola ricerca.

Ho “navigato” sul siti del Senato della Repubblica e ho cercato il termine “Fibromialgia”. Ebbene, ho scoperto una quantità colossale di dati tra:

DDL; Reseconti; Atti del Senato; Atti delle Camere; Atto di Sindacato Ispettivo; Risposta di Interrogazione scritta; Scheda di attività dei singoli Parlamentari e Senatori; Ordini del Giorno; Proposte di modifiche e per finire, le Petizioni.

Per essere più esatta, se effettuate la ricerca con il termine “DDL” vengono fuori 91 risultati su 10 pagine; viceversa se effettuate la ricerca con il solo termine “Fibromialgia”, le pagine e i numeri aumentano e nello specifico: 26 pagine di ricerca per 252 risultati.

Ora se escludiamo, i Reseconti; gli Atti del Senato; gli Atti delle Camere; l’ Atto di Sindacato Ispettivo; la Risposta di Interrogazione scritta; le Scheda di attività dei singoli Parlamentari e Senatori; gli Ordini del Giorno; le Proposte di modifiche e le Petizioni, mi soffermerei sui DDL, perché sono quelli più IMPORTANTI. Ricordo che i DDL (Disegno di legge) è l’atto d’iniziativa legislativa deliberato dal Governo. Il disegno di legge non ha valore normativo fin quando non diviene legge con la approvazione da parte sia della Camera che del Senato, poi pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

Sapete quanti ne ho trovati? 9. Si, sono 9 e tra questi:

il DDL 246, il DDL 2448, il DDL 1994, il DDL 299, il DDL 1586 il DDL 2564, il DDL 603; il DDL 400 e il DDL 546.

Al di la che è giusto discutere, confrontarsi, al di la che questo è l’iter diciamo, “normale” per arrivare a definire un buon DDL soprattutto per una malattia cronica ed invalidante come la Fibromialgia, al di la, cosa di una rilevanza IMPORTANTISSIMA, che questa malattia fu riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1992, anno in cui venne inclusa nella decima revisione dello International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-10, codice M79-7), entrata poi in vigore il 1° gennaio 1993, non vi sembra che siano troppi tutti questi numeri e che siamo stanti e stufi di aspettare?

Dopo quasi 30 anni dal riconoscimento e 31 dall’entrata in vigore, quanti anni ci volete far aspettare?

Rosaria Mastronardo cha ODIA il colore viola

Se non vedo, non credo…..

Pochi giorni fa, una delle care amiche che seguono il mio gruppo Facebook: Fibromialgia: Affrontiamola Insieme, mi ha girato in privato su WhatsApp questo link:

https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/SommComm/0/1372264/index.html?part=doc_dc-sedetit_isr-ddlbl_246400546rfcmi

chiedendomi un parere e un mio aiuto a capire cosa stesse succedendo sull’iter “interminabile” “senza fine“infinito” “eterno” messo in piedi oramai da troppi anni per il riconoscimento della Fibromialgia che, ricordo per chi lo avesse rimosso, è stata riconosciuta come malattia cronica ed invalidante dall’OMS nel 1992, più di 30 anni fa.

Potete constatarlo voi stessi facendo una semplice ricerca in Internet.

Io l’ho fatta, e consultando i motori di ricerca, trovo sempre questo testo:

La sindrome fibromialgica è una malattia reumatica riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) dal 1992, anno in cui venne inclusa nella decima revisione dello International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-10, codice M79-7), entrata in vigore il 1° gennaio 1993

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) già nel 1992 si pronunciò su questa malattia reumatica, così si legge, ma non solo, la stessa OMS incluse la malattia nella decima revisione dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (ICD-10, codice M79-7), cioè gli fu assegnato un codice.

Confesso all’amica di essere basita. Siamo ancora, DI NUOVO, a discutere di DDL (nel linguaggio parlamentare, sta per disegno di legge). Per i non addetti ai lavori, spiego che il Disegno di legge è un atto avente valore di legge ordinaria, adottato dal Governo in base ad una delega conferita dal Parlamento con legge, e la mia formidabile memoria, soffermandomi sul link appena giratomi, va automaticamente indietro nel tempo e, dai famosi “cassetti”, aiutata da vari documenti contenuti nelle numerose cartelle del mio personal computer, emerge la conferma che non erano solo quelli menzionati nel link, i DDL sulla Fibromialgia. Nel corso delle varie legislature i DDL “prodotti” sono stati tantissimi, ora si può proprio affermare che sono TROPPI.

Faccio altre ricerche e trovo altre “fonti

La prima è questo file

Instant book_Fibromialgia_2021 che potete trovare a questo link:

https://drive.google.com/drive/folders/1EtjaY9oPEgAjzLPvbuqGUcq8M6bt2y9H?usp=share_link

All’interno cercate il 6° capitolo e leggetelo. Ciò di cui parlo e che condivido con voi, è un documento pubblico conosciuto da molti di coloro che seguono le “incresciose” vicende sul riconoscimento di questa malattia. Se non lo avete mai letto, questa è una buona occasione. Io l’ho fatto, e da quello che ho capito, confrontando i due contenuti (il link passatomi dalla mia amica, inserito all’inizio di questo testo, e quello che vi ho sottoposto qui sopra), c’è una grande, enorme, gigantesca, smisurata, immensa, mastodontica, e qui mi fermo, confusione.

Ho capito, inoltre, che ad ogni cambio di Governo, le “carte” sulla Fibromialgia vengono di nuovo mischiate come fa il mazziere al tavolo da poker all’inizio di ogni nuova mano di gioco, stravolgendo quello che i Governi precedenti avevano già fatto e detto di fare, interrotti dalla nomina dei nuovi Senatori e Parlamentari della nuova legislatura. Questo mi porta a pensare, vista l’instabilità dei nostri Governi, che ad ogni “cambio della guardia” ci sarà un nuovo mazziere che rimischierà le carte, reo di compromettere la vita delle tante persone affetta da questa malattia, le quali, in Italia, stanno ininterrottamente continuando a sperare in un riconoscimento fin dal quel lontano 1992.

Il mio nome di battesimo è Rosaria, ma sono nota per la mia diffidenza nella mancanza di fatti a supporto di parole dette al vento. Molti mi hanno soprannominata per questo motivo San Tommaso: infatti “se non vedo, non credo”. Conoscete la storia di questo Santo?

Eccola in breve:

L’espressione “Essere come San Tommaso” indica chi non crede a ciò che si dice o gli venga detto senza che abbia avuto prove certe.

L’ origine dell’espressione si deve al Nuovo Testamento. Nel Vangelo di Giovanni (Vangelo di Giovanni, 20, 19-29), infatti, leggiamo che quando Gesù risorto apparve agli apostoli chiusi in casa per timore dei Giudei, Tommaso era lontano dal luogo. Quando gli riferirono l’accaduto, non volle credere che Gesù si fosse recato da loro.

«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non faccio passare il mio dito attraverso il suo costato, non crederò».

Otto giorni dopo, Gesù entrò nella casa in cui gli apostoli si erano radunati e disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani: liberati dal dubbio e credi!».

Solo allora Tommaso prestò fede alle parole che pochi giorni prima i suoi amici gli avevano riferito.

Quindi, finchè vedrò ripetersi il solito teatrino della discussione in commissione dei vari DDL, tra vecchi e nuovi, il formarsi di audizioni come se non fossero state già fatte in passato, come se la malattia cambiasse le peculiarità ad ogni giro di boa, come se gli archivi della commissione sanità venissero bruciati ogni volta in un incendio, e si perdesse memoria di tutto ogni volta, non mi affannerò a ringraziare proprio nessuno, perchè in tutto questo evidentissimo perdere tempo, l’unica cosa che salta agli occhi, è di nuovo il sempiterno epilogo, l’infossarsi per l’ennesima volta del DDL in commissione bilancio. Ma adesso che i fondi, vista la possibilità di ottenerli dal PNRR, ci sarebbero e pure abbondanti, non sia mai, meglio ritornare a fare l’iter, non si sa mai che venga approvato qualcosa…

La sottoscritta ha riferito all’amica che gli ha girato il link di cui sopra, che sino a quando non vedrò pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale un DDL, qualsiasi sia, con un qualsiasi numero decideranno di attribuirgli, io sarò sempre come San Tommaso, “se non vedo, non credo

Amen

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo: psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli.

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico.

Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme

(F. De André, 1981)

Un cammino che spesso inizia in salita

Da quando ho intrapreso la mia professione di psicologa e psicoterapeuta ho capito ancor di più che le parole sono importanti, ma soprattutto lo è l’uso che ne facciamo. Se andassimo a consultare il vocabolario alla voce “cronico” vedremmo che questo termine deriva dal greco chronĭcus, derivazione χρονικός, “tempo”. Se calassimo questa parola all’interno della dimensione della patologia scopriremmo che per il paziente soggetto a cronicità il fattore tempo si lega alla sua condizione di salute: il paziente, giorno dopo giorno, si trova a combattere con un corpo o una parte di esso che ha smesso di essere suo “alleato”, rendendo più difficile e complesso il cammino della vita, più di quanto non lo fosse prima. Proseguendo nella lettura, lo stesso dizionario illustra che in medicina, e nel linguaggio comune, ci si riferisce alla cronicità come a una condizione di malattia a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione.

Le malattie croniche sono patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e per le quali le terapie non sono quasi mai risolutive. L’incidenza di queste patologie, che possono essere di origini diverse, è molto alta: rappresentano circa l’80% del carico di malattia dei sistemi sanitari nazionali europei. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo i dati riportati dall’Istituto superiore di sanità al 5 gennaio 2022, le malattie croniche (o non trasmissibili) interessano in Italia circa 24 milioni di persone. Tali situazioni hanno un impatto importante sulla qualità e sull’attesa di vita della popolazione, perché queste malattie interessano tutte le fasi della vita, anche se i segmenti di popolazione più frequentemente colpiti sono gli anziani: soffre infatti di malattie croniche più dell’85% delle persone che hanno superato i 75 anni di età, ed in particolare le donne dopo i 55 anni. La lotta alla condizione di malato cronico rappresenta, senza dubbio, una sfida complessa ma, al contempo, prioritaria e ad ampio raggio, che parte dall’incremento e dal miglioramento delle conoscenze relative a tutti quei meccanismi e a quei fattori di rischio che portano allo sviluppo della condizione di cronicità e alle possibili strategie e programmi di prevenzione e di trattamento.

È una vera e propria sfida che coinvolge diversi livelli di intervento. Tali livelli si ancorano o dovrebbero ancorarsi a modelli organizzativi basati su un approccio organizzato e integrato, ed essere orientati tanto ad una maggiore efficienza quanto al miglioramento della qualità e dell’assistenza dei malati cronici. Tutto ciò è stato ribadito anche all’interno del recente articolo pubblicato su “Nature” (Whitty & Watt, 2020), in cui si sottolinea quanto sia importante, all’interno dei contesti di cura, superare la tendenza a trattare le diverse comorbilità come “compartimenti stagni” e superare così la tendenza ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialisti, senza che questi abbiano la possibilità di poter lavorare in sinergia gli uni con gli altri. Perseguire questo sentiero è importante anche, e soprattutto, per giungere all’individuazione di una diagnosi corretta.

Al di là della sua specificità, infatti, diagnosticare una malattia cronica può non coincidere con l’insorgenza della malattia stessa. Ci sono pazienti la cui sintomatologia consente di giungere a una diagnosi tempestiva; per altri invece la patologia risulta complessa da individuare perché dalle indagini strumentali il paziente appare sano pur non essendolo.

Sono i così detti pazienti invisibili, che non ricevono sufficienti attenzioni dalla ricerca, perché le loro malattie non rientrano nei LEA: si tratta delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento, di una quota di partecipazione (il ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso le tasse. Ciò significa che per queste categorie di pazienti non sono previste tutte quelle prestazioni o quei servizi che di norma sono forniti dal Servizio sanitario nazionale. Questo genera, sia per i singoli pazienti sia le loro famiglie, un pesante impatto di natura economica, capace di mettere a dura prova il “sistema famiglia”.

Dunque queste persone si assumono l’onere di sopportare, oltre alla sofferenza fisica, anche il disagio psicologico che deriva dal non sentirsi compresi, visti o ascoltati nella propria sofferenza e nel proprio disagio, sia dal contesto sociale in cui sono inseriti che dallo stesso Sistema sanitario nazionale.

Riporto di seguito alcuni stralci dei colloqui con i pazienti:

Una malattia che esiste solo se è visibile ci porta inadeguatezza, disagio, paura”.

Nessuno, oltre a te stesso può vedere, capire o provare cosa ti succede quando si scatena”.

Nessuno mi crede e difficilmente comprende la fatica che comporta anche il più

piccolo gesto”.

Spesso lo stato di salute di questi pazienti viene assimilato alle così dette functional somatic sydromes: sono le sindromi somatiche funzionali descritte per la prima volta da S. Wessely e attualmente definite come Medically Unexplained Symptoms (MUS) o “Sintomi clinicamente inspiegabili”. Sebbene i sintomi inspiegabili dal punto di vista medico rappresentino un fenomeno comune, l’esatta struttura latente dei sintomi somatici rimane in gran parte poco chiara (Edwards, et. al 2016; Witthöft et al., 2013).

È questa la dimensione in cui diagnosi e terapia diventano un percorso tortuoso, perché la sintomatologia spesso non trova una corretta classificazione diagnostica. La ragion d’essere di tale difficoltà potrebbe essere rintracciata nel fatto che malattie, seppur simili, hanno sviluppi e decorsi completamente diversi. Tale condizione mette a dura prova anche il rapporto paziente-medico. Il primo può perdere fiducia nelle capacità diagnostiche del medico e rivolgersi a numerosi altri professionisti. Il medico, invece, proprio in ragione di tali difficoltà, potrebbe richiedere altri accertamenti clinici, che comporta per il paziente intraprendere un percorso travagliato e costellato da diagnosi multiple.

Nell’affannosa ricerca di questo “nemico invisibile”, spesso viene consigliato ai pazienti di andare dallo psicoterapeuta, quale estremo tentativo di trovare una soluzione a un malessere, a una condizione di sofferenza apparentemente inspiegabile e senza nome. Quando questo accade, alla sofferenza viene generalmente riconosciuta esclusivamente la “paternità” della psicosomatica e della matrice di natura psicologica del disturbo organico. Di certo i fattori psicologici sono importanti nella patogenesi di tutte le malattie croniche in cui la componente psicosomatica diventa un terreno comune, un anello di congiunzione tra medicina e psicologia clinica di cui quel disturbo rappresenta l’esito di un processo di somatizzazione, un fenomeno che conduce all’espressione organica di un’emozione o di un conflitto psicologico. Credo però che sia per certi versi controproducente definire unicamente come psicosomatico ciò che, per svariate ragioni, non si riesce a comprendere nella sua complessità, perché questo aggiunge disagio a disagio. Confrontarsi con la cronicità significa allora saper cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità; una complessità che contempla anche gli aspetti psicologici e che vede “soma” e “psiche” non come entità separate ma legate nella loro unicità. Nell’individuo, infatti, i processi psichici consci e quelli inconsci non sono separati dagli eventi fisiologici (Frigoli, Masaraki, Morelli, 1980).

A domani, per altri due capitoli:

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Il sistema famiglia

Buona lettura

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.