L’inutilità del 12 maggio ( giornata mondiale delle fibromialgia) se resta solo un giorno.

Quelle inutili celebrazioni e i veri problemi insoluti

Nel giorno del 12 maggio, di ogni anno, si ricordano sempre 3 ricorrenze:

  • Giornata internazionale dell’infermiere, in memoria della nascita di Florence Nightingale
  • Giornata mondiale della fibromialgia
  • Giornata mondiale della sindrome da stanchezza cronica

Soffermiamoci sulla fibromialgia.

In passato, fin dal 1800, la malattia era già conosciuta, ma con tanti altri nomi: nel 1904 ad esempio la malattia venne chiamata Fibrosite da William Richard Gowers, che era un neurologo e pediatra inglese.

Federigo Sicuteri, medico toscano, individuò negli anni ’60 la figura della sindrome dolorosa ora nota come Fibromialgia. La denominò “Panalgesia” (pan=tutto, algesia=dolorabilità) e sottopose questa figura nosologica al Collegio della IASP, che riconobbe dignità di malattia a tale condizione, ma la ribattezzò col nome anglofono di “Fibromyalgia“, traducibile in italiano come Fibromialgia. Federigo Sicuteri ne aveva già messo in luce l’origine con sperimentazioni sull’animale. Il meccanismo d’origine è stato definito come serotonergico ed NMDA relato.

Il termine fibromialgia, deriva dal latino fibra e dal greco myo (muscolo) unito ad algos (dolore).

Fin dal 1992 la sindrome fibromialgica è riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con la cosiddetta Dichiarazione di Copenhagen, ed è stata inclusa nella decima revisione dell’International statistical classification of diseases and related health problems (ICD-10), con il codice M79-7. Ad oggi, non è riconosciuta in Italia ma in altri paesi si.

Ci pensate? Si parlava di fibromialgia già dal 1800 e ad oggi se ne parla ancora senza prospettive certe per i soggetti che ne sono affetti.

Ogni anno, il 12 maggio, tutte le associazioni di malati fibromialgici, ricordano questa giornata con tante iniziative, bontà loro, e anche quest’anno, si ripete la stessa cosa con iniziative sempre lodevoli ma che non portano a nulla se non accendere i “riflettori” sulla malattia almeno per 24 ore.

Sapete quante e quali sono le giornate mondiali dedicate a qualcosa? La risposta arriva dall’Onu, che ha pubblicato il calendario completo degli eventi programmati tra l’1 gennaio e il 31 dicembre di ogni anno. In tutto sono 182. Praticamente un giorno ogni due celebriamo qualcosa.

Appare evidente che abbiamo troppe giornate da celebrare, molte delle quali su temi di scarsa rilevanza. Un conto è festeggiare la giornata delle torte (esiste davvero il 17 marzo!) un altro è rivolgere con serietà, tramite queste giornate mondiali, la nostra attenzione ai problemi dell’ambiente, della società e della salute da cui tutti dipendiamo.

Personalmente, essendo fibromialgica dal 2015 e ancora oggi ne soffro insieme a tante altre malattie croniche e concomitanti alla fibromialgia, ho pensato che non potevo non ricordare il 12 maggio per sempre ed è così che nel 2018, proprio nel giorno della giornata mondiale della fibromialgia nasceva il primo gruppo di auto aiuto, per il Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto, sulla fibromialgia, facilitato da me e dal nome: “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”.

Sono passati 5 anni. Ho fatto diverse cose belle nella mia vita ma questa del 12 maggio 2018 resterà a tutti. Tutti quelli che in questi anni hanno trovato nel gruppo qualcosa che ha fatto loro bene, ha tranquillizzato, ha fortificato ha dato qualcosa.

Nel gruppo di auto aiuto, “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”, ci confrontiamo e condividiamo le nostre esperienze, la nostra consapevolezza, il nostro modo di affrontare il dolore, il nostro vissuto come portatori di una malattia cronica invalidante che ti cambia la vita ma che nessuno vede con gli occhi, perché non hai segni sul corpo ma, nell’anima.

Per me, facilitare un gruppo, stare in un gruppo significava tante case ma una su tutte: non lasciare nella solitudine persone che come me soffrono di un dolore cronico.

Mi sono messa in gioco, per fare stare bene anche l’altro, uguale a me.

L’auto aiuto è un processo di condivisione volontaria di problemi comuni. E’ basato sul supporto reciproco, scambio di informazioni, abilità per l’affronto del problema, empatie a costruzione della resilienza. L’auto aiuto si occupa di costruire ambienti di supporto per permettere alle persone di avere più controllo sulla propria condizione di salute e meglio gestire le loro avversità. Per questo motivo, l’auto aiuto rappresenta un elemento base di un processo che mira a rafforzare la resilienza personale e comunitaria.

Il Glossario per la promozione della Salute dell’OMS spiega che l’auto-aiuto si lega alle azioni di personale laico nel muovere risorse in un processo che mira a promuovere, mantenere o ripristinare la salute di individui e della comunità.

I benefici del partecipare in gruppi di auto-aiuto sono numerosi, e il loro contributo nel benessere e la resilienza è stato documentato nella letteratura scientifica per almeno cinque decadi.

E’ bello ricordare quello che si è realizzato e voluto fortemente. Con me, nella realizzazione di questo gruppo di auto aiuto (oggi ne facilito 2), hanno collaborato tanti professionisti che hanno creduto in questo progetto e ad oggi mi sostengono ancora. Ci sono associazioni, piccole, medie e grandi che hanno fatto tanto per la sensibilizzazione di questa malattia cronica ed invalidante ma, quella più importante per noi malati, manca. Dopo il tanto fare, manca ancora un riconoscimento da parte dello Stato e manca soprattutto l’inserimento nei LEA (livelli essenziali di assistenza).

E’ pur vero che questa malattia non ha nessun marcatore che la identifichi con esattezza è vero anche che non c’è cura per essa ma, i malati esistono, i malati affetti da questa malattia sono inseriti nel registro della S.I.R. (Società Italiana di Reumatologia), cosa stiamo aspettando?

E intanto, un anno è passato. Si accendono i palazzi di viola, le fontane, si colorano le panchine dei giardini di viola, qualcuno ha chiesto anche l’aiuto di Papa Francesco per la fibromialgia ma, siamo ancora a 30 anni fa. Fermi, immobili nell’indifferenza delle istituzioni, della società, dello Stato.

Celebriamo pure, festeggiamo, coloriamoci tutti di viola ma, il dolore, quel dolore invisibile, che ti toglie il fiato e la forza di vivere, rimane.

Rosaria Mastronardo

Post Covid: fibromialgia per una donna su quattro.

Articolo apparso su : https://www.healthdesk.it/ il 10 marzo 2023, ore 18:20.

Dopo un ricovero per infezione da SARS-CoV-2, il 15% dei pazienti sviluppa fibromialgia, percentuale che sale al 26% nel sesso femminile.

È quanto risulta dai dati raccolti da ricercatori dello Sheba Medical Center in Israele e pubblicati di recente su PLOS One analizzando circa 200 pazienti ricoverati per Covid-19 nel 2020: l’87% ha avuto almeno un sintomo correlato alla fibromialgia dopo essere guarito dall’infezione, il 15% ha sviluppato la sindrome nei cinque mesi successivi. Fra le donne l’incidenza è stata del 26%, sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale; i sintomi più comuni, presenti ciascuno in oltre un caso su due, sono stanchezza, disturbi del sonno e dolori muscolari e articolari.

Se ne è parlato in occasione del Corso sul dolore acuto e cronico, dalla ricerca alla clinica organizzato dall’Istituto tumori Pascale di Napoli dal 9 all’11 marzo.

Anche in Italia l’incidenza della sindrome è in forte aumento nella popolazione generale e dopo la pandemia i casi di fibromialgia sono in continua crescita: oggi si stimano circa 2 milioni di casi.

«La fibromialgia è una sindrome “misteriosa” – spiega Arturo Cuomo, direttore della Struttura complessa di Anestesia, rianimazione e terapia antalgica del Pascale – di cui per lungo tempo è stata messa in dubbio perfino l’esistenza. Oggi è riconosciuta come patologia reumatica extra-articolare, ma resta un problema spesso diagnosticato con grande ritardo e qui al Pascale siamo fortemente impegnati a scongiurare che accada, evitando che i pazienti per mesi o anni si sottopongano a visite da diversi specialisti prima di dare un nome al proprio disturbo».

La fibromialgia giovanile colpisce il 2-6% di bambini e adolescenti, soprattutto femmine, e «in questi casi – sottolinea Marco Cascella, responsabile dell’HUB del dolore del Pascale – è ancora più essenziale intervenire per garantire una buona qualità di vita e per scongiurare conseguenze sul benessere psicologico: ricerche recenti hanno dimostrato alterazioni nelle aree cerebrali deputate all’elaborazione del dolore e nella corteccia frontale, in zone connesse alla regolazione ed elaborazione delle emozioni».

La cura della fibromialgia può includere anche miorilassanti e antidolorifici, ma i trattamenti sono per lo più non farmacologici e soprattutto personalizzati, con interventi sullo stile di vita, educativi e psicoterapeutici. Purtroppo, però, la fibromialgia non è inclusa nell’elenco delle patologie croniche e quindi nei Lea: «I pazienti non hanno diritto a esenzioni per visite, esami e terapie – osserva Cuomo – e questo complica non poco la gestione della sindrome, per la quale sarebbe importante creare percorsi adeguati così da ridurre i tempi per la diagnosi e garantire una presa in carico assistenziale adeguata in centri con esperienza nel campo».

La sottoscritta, aveva già pubblicato un articolo, lo trovate qui:

http://www.cittadinanzattivatoscana.it/?s=long+covid

dove, io e l’amica Tiziana Lazzari avevamo fatto emergere questo problema, si scriveva già a maggio del 2021 che : “Tutti i Paesi dell’UE sono colpiti da questo nuovo fenomeno”.

Speriamo si prendano provvedimenti al più presto, nel campo della ricerca per una soluzione scientifica valida, per evitare che il numero della percentuale aumenti a dismisura.

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo: psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli.

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico.

Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme

(F. De André, 1981)

Un cammino che spesso inizia in salita

Da quando ho intrapreso la mia professione di psicologa e psicoterapeuta ho capito ancor di più che le parole sono importanti, ma soprattutto lo è l’uso che ne facciamo. Se andassimo a consultare il vocabolario alla voce “cronico” vedremmo che questo termine deriva dal greco chronĭcus, derivazione χρονικός, “tempo”. Se calassimo questa parola all’interno della dimensione della patologia scopriremmo che per il paziente soggetto a cronicità il fattore tempo si lega alla sua condizione di salute: il paziente, giorno dopo giorno, si trova a combattere con un corpo o una parte di esso che ha smesso di essere suo “alleato”, rendendo più difficile e complesso il cammino della vita, più di quanto non lo fosse prima. Proseguendo nella lettura, lo stesso dizionario illustra che in medicina, e nel linguaggio comune, ci si riferisce alla cronicità come a una condizione di malattia a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione.

Le malattie croniche sono patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e per le quali le terapie non sono quasi mai risolutive. L’incidenza di queste patologie, che possono essere di origini diverse, è molto alta: rappresentano circa l’80% del carico di malattia dei sistemi sanitari nazionali europei. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo i dati riportati dall’Istituto superiore di sanità al 5 gennaio 2022, le malattie croniche (o non trasmissibili) interessano in Italia circa 24 milioni di persone. Tali situazioni hanno un impatto importante sulla qualità e sull’attesa di vita della popolazione, perché queste malattie interessano tutte le fasi della vita, anche se i segmenti di popolazione più frequentemente colpiti sono gli anziani: soffre infatti di malattie croniche più dell’85% delle persone che hanno superato i 75 anni di età, ed in particolare le donne dopo i 55 anni. La lotta alla condizione di malato cronico rappresenta, senza dubbio, una sfida complessa ma, al contempo, prioritaria e ad ampio raggio, che parte dall’incremento e dal miglioramento delle conoscenze relative a tutti quei meccanismi e a quei fattori di rischio che portano allo sviluppo della condizione di cronicità e alle possibili strategie e programmi di prevenzione e di trattamento.

È una vera e propria sfida che coinvolge diversi livelli di intervento. Tali livelli si ancorano o dovrebbero ancorarsi a modelli organizzativi basati su un approccio organizzato e integrato, ed essere orientati tanto ad una maggiore efficienza quanto al miglioramento della qualità e dell’assistenza dei malati cronici. Tutto ciò è stato ribadito anche all’interno del recente articolo pubblicato su “Nature” (Whitty & Watt, 2020), in cui si sottolinea quanto sia importante, all’interno dei contesti di cura, superare la tendenza a trattare le diverse comorbilità come “compartimenti stagni” e superare così la tendenza ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialisti, senza che questi abbiano la possibilità di poter lavorare in sinergia gli uni con gli altri. Perseguire questo sentiero è importante anche, e soprattutto, per giungere all’individuazione di una diagnosi corretta.

Al di là della sua specificità, infatti, diagnosticare una malattia cronica può non coincidere con l’insorgenza della malattia stessa. Ci sono pazienti la cui sintomatologia consente di giungere a una diagnosi tempestiva; per altri invece la patologia risulta complessa da individuare perché dalle indagini strumentali il paziente appare sano pur non essendolo.

Sono i così detti pazienti invisibili, che non ricevono sufficienti attenzioni dalla ricerca, perché le loro malattie non rientrano nei LEA: si tratta delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento, di una quota di partecipazione (il ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso le tasse. Ciò significa che per queste categorie di pazienti non sono previste tutte quelle prestazioni o quei servizi che di norma sono forniti dal Servizio sanitario nazionale. Questo genera, sia per i singoli pazienti sia le loro famiglie, un pesante impatto di natura economica, capace di mettere a dura prova il “sistema famiglia”.

Dunque queste persone si assumono l’onere di sopportare, oltre alla sofferenza fisica, anche il disagio psicologico che deriva dal non sentirsi compresi, visti o ascoltati nella propria sofferenza e nel proprio disagio, sia dal contesto sociale in cui sono inseriti che dallo stesso Sistema sanitario nazionale.

Riporto di seguito alcuni stralci dei colloqui con i pazienti:

Una malattia che esiste solo se è visibile ci porta inadeguatezza, disagio, paura”.

Nessuno, oltre a te stesso può vedere, capire o provare cosa ti succede quando si scatena”.

Nessuno mi crede e difficilmente comprende la fatica che comporta anche il più

piccolo gesto”.

Spesso lo stato di salute di questi pazienti viene assimilato alle così dette functional somatic sydromes: sono le sindromi somatiche funzionali descritte per la prima volta da S. Wessely e attualmente definite come Medically Unexplained Symptoms (MUS) o “Sintomi clinicamente inspiegabili”. Sebbene i sintomi inspiegabili dal punto di vista medico rappresentino un fenomeno comune, l’esatta struttura latente dei sintomi somatici rimane in gran parte poco chiara (Edwards, et. al 2016; Witthöft et al., 2013).

È questa la dimensione in cui diagnosi e terapia diventano un percorso tortuoso, perché la sintomatologia spesso non trova una corretta classificazione diagnostica. La ragion d’essere di tale difficoltà potrebbe essere rintracciata nel fatto che malattie, seppur simili, hanno sviluppi e decorsi completamente diversi. Tale condizione mette a dura prova anche il rapporto paziente-medico. Il primo può perdere fiducia nelle capacità diagnostiche del medico e rivolgersi a numerosi altri professionisti. Il medico, invece, proprio in ragione di tali difficoltà, potrebbe richiedere altri accertamenti clinici, che comporta per il paziente intraprendere un percorso travagliato e costellato da diagnosi multiple.

Nell’affannosa ricerca di questo “nemico invisibile”, spesso viene consigliato ai pazienti di andare dallo psicoterapeuta, quale estremo tentativo di trovare una soluzione a un malessere, a una condizione di sofferenza apparentemente inspiegabile e senza nome. Quando questo accade, alla sofferenza viene generalmente riconosciuta esclusivamente la “paternità” della psicosomatica e della matrice di natura psicologica del disturbo organico. Di certo i fattori psicologici sono importanti nella patogenesi di tutte le malattie croniche in cui la componente psicosomatica diventa un terreno comune, un anello di congiunzione tra medicina e psicologia clinica di cui quel disturbo rappresenta l’esito di un processo di somatizzazione, un fenomeno che conduce all’espressione organica di un’emozione o di un conflitto psicologico. Credo però che sia per certi versi controproducente definire unicamente come psicosomatico ciò che, per svariate ragioni, non si riesce a comprendere nella sua complessità, perché questo aggiunge disagio a disagio. Confrontarsi con la cronicità significa allora saper cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità; una complessità che contempla anche gli aspetti psicologici e che vede “soma” e “psiche” non come entità separate ma legate nella loro unicità. Nell’individuo, infatti, i processi psichici consci e quelli inconsci non sono separati dagli eventi fisiologici (Frigoli, Masaraki, Morelli, 1980).

A domani, per altri due capitoli:

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Il sistema famiglia

Buona lettura