Incertezza, insicurezza e dubbi che si sono insinuati in me, negli anni, dopo la diagnosi di fibromialgia.

Una cosa che mi sorprende continuamente quando si tratta di fibromialgia, è l’insicurezza. Sono facilitatrice di due gruppi di auto aiuto da diversi anni, e ho sempre sentito tutti coloro che partecipano ai gruppi che facilito, affermare che i tanti professionisti medici consultati lungo il percorso di diagnosi e “non cura”, ancora oggi, nonostante la letteratura immensa a disposizione, non credono che il nostro dolore sia reale. In alcuni casi nel racconto sento emergere che una parte, tutt’altro che irrisoria, di questi “luminari”, mette addirittura in dubbio l’esistenza della fibromialgia come vera e propria malattia fisica, ed afferma in maniera più o meno palese, che si tratti invece di un insieme di sintomi provocati da malattia psicosomatica, per cui psichiatrica. L’insicurezza, l’incredulità e la diffidenza non caratterizzano solo l’atteggiamento dei medici ma anche quello dei nostri amici e familiari, per non parlare poi del luogo di lavoro. E’ un continuo, è un tormentone che ci penalizza e ci abbatte, ci avvilisce ogni giorno.

Penso che l’insicurezza e l’incertezza da parte dei medici sia sicuramente “frutto” delle poliedriche teorie sull’origine della malattia, tanto che si sono sviluppate, nel tempo, decine di correnti di pensiero al riguardo, facendo sì che idee e preconcetti si moltiplicassero senza limiti nella confusione generale. È risaputo che non esiste ancora un test ematico che possa rilevare, tramite marcatore specifico, che ci si trovi inconfutabilmente in presenza di Fibromialgia, e nemmeno esiste un esame diagnostico che attesti che noi siamo affetti da questa malattia.

Il medico, spesso un reumatologo, ti rivolge qualche domanda sul dolore che provi, e tu racconti che lo senti martellante, sordo, a tratti insopportabile. Se l’uomo che ti sta davanti con il suo bel camice bianco ne ha voglia, allora si alza dalla scrivania, ti tocca in alcuni punti del corpo, e se toccandoli reagisci rientrando in “certi canoni”, emette la fatidica diagnosi: fibromialgia, punto. Punto? Sì, punto. Perché tutto finisce lì, nonostante in scienza e coscienza ed anche in base ad un tacito accordo, quasi un protocollo, prima di formulare detta diagnosi, l’uomo con il camice dovrebbe indagare per cercare di escludere tutte le altre malattie che possano avere identici sintomi, hai visto mai che si possa prendere in tempo una malattia diversa da quella del sacco contenitore, quello con il marchio Fibromialgia, dove finiscono tutti coloro che non avranno mai una cura. In pratica, i sintomi di malattia che tu riferisci di provare bastano a far scattare nello specialista il desiderio di fermarsi, per risparmiarsi le prescrizioni di altre indagini. Ciò che spinge il medico a refertare la diagnosi è la presenza di alcuni sintomi, fra quelli annoverati in un lunghissimo elenco, genericamente da associarsi, per convenzione, alla fibromialgia. Quindi è l’appartenenza di un sintomo a questo elenco a scatenare una diagnosi, quasi sempre molto affrettata, e non un esame di laboratorio.

Altra cosa sono i parenti, amici e datori di lavoro che mettono costantemente in dubbio il tuo provare dolore, il tuo stare male, la tua stanchezza cronica, la tua affaticabilità, la tua scarsa concentrazione. Ecco allora che nascono tutti gli epiteti più cattivi e ingiusti. Sei una fannullona, non hai voglia di fare nulla, sei depressa, vatti a fare una camminata, fatti una vacanza, trovati un buon compagno, e vedrai che ti passa, etc, etc.

Ci isoliamo, ma al tempo stesso siamo evitati, fino al punto di essere completamente emarginati, rischiamo di essere licenziati da un datore di lavoro che guarda la produzione e che se ne infischia della tua fatica quotidiana nel gestire tutta la devastazione del tuo corpo ad opera di una malattia subdola, che quando ti prende sei sua per sempre, avvolta nelle sue spire sempre più strette. Per noi la vita diventa l’inferno. E’ un cane che si morde la coda, non hai scampo. Soffri per il dolore che nessuno vede, e in più sei anche stigmatizzato.

Tutto questo l’ho vissuto in prima persona e l’ho rivissuto ascoltando nei gruppi di auto aiuto, le testimonianze di altre/i nelle mie stesse condizioni. Quelle testimonianze erano copie conformi della mia situazione di malattia e sofferenza, uguali identiche.

Qualcuno riesce ad uscire da questo impasse, altri no, ma come biasimare questi ultimi. Noi siamo esseri umani e non siamo tutti uguali, ogni soggetto reagisce in modo diverso agli stimoli esterni, fisici e patologici, e le cure vengono sopportate da ciascuno in modo tutt’altro che standardizzato. È il motivo per cui a contatto con una certa sostanza c’è chi va in anafilassi e chi la tollera tranquillamente. Dovrebbe essere normale saperlo, per un medico, ma non è sempre così. Probabilmente perché molti medici si sono talmente abituati ad avere nel cassetto della loro scrivania il manuale dei protocolli al posto del giuramento di Ippocrate, che si sono disabituati al ragionamento preferendo agire prevedendo una loro tutela giuridica in caso nascesse una controversia legale nei loro confronti a causa di un errore medico.

Tutto quello che ho descritto, immaginate, per me è iniziato nel 2015, anno della diagnosi di Fibromialgia.

Premetto che la “sentenza” mi venne fatta da un neurologo. Fui colpita, in quel momento orribile della mia vita, da forti parestesie alle gambe. Non avevo sensibilità dal bacino in giù, le mie gambe non erano più fatte di carne, ma dure come cemento, al punto che non camminavo più e mi trascinavo letteralmente. Dopo circa un anno passato in quel modo, il neurologo emise il fatidico verdetto: “Fibromialgia”. Nella vita di chi riceve questa diagnosi, esiste una “vita prima” e una “vita dopo” la diagnosi, completamente stravolta rispetto alla prima. Da quel momento ad oggi, i vari medici che ho consultato mi hanno prescritto e consigliato di tutto, ed anche l’esatto contrario di quel tutto. Consigliato e prescritto a seconda della teoria del momento. Hanno seguito alla lettera tutto ciò che i “famosi” protocolli indicavano per il trattamento del paziente con fibromialgia. Per cercare di mascherare o attenuare il dolore, non hanno prescritto altro che farmaci presi a prestito da altri protocolli di cura, e che servirebbero per trattare ben altro, visto che, come noto, non c’è cura, non c’è nulla che possa risolvere i sintomi della fibromialgia.

I farmaci che di prassi si prescrivono in quest’ambito, poiché non curano ma cercano solo di tenere a bada un sintomo senza risolverne la causa, non impediscono a quest’ultima di continuare imperterrita a manifestarsi tramite il dolore, ed il dosaggio del farmaco, creando assuefazione, dev’essere aumentato sempre più, fintanto che anziché essere efficace, crea solo danno e dev’essere sospeso. Si prova un altro farmaco, e l’epilogo è lo stesso di quello precedente. Se paragonassimo banalmente la malattia all’acqua che sgorga dal rubinetto senza poterne chiudere il flusso, e fingessimo che il tappo del lavandino fosse il farmaco, ci accorgeremmo che il tappo non potrà nulla se l’acqua continuerà a scorrere nel lavandino, che si riempirà fino a far fuoriuscire l’acqua che continuerà imperterrita a scorrere fino ad allagare prima la cucina (un organo), e poi la casa (l’intero corpo umano).

A dimostrazione dell’immenso danno che provoca una delle regole stabilite nel protocollo di diagnosi della fibromialgia, che impone al medico, dopo la diagnosi, di non prescrivere più alcun accertamento diagnostico, nel corso di questi anni, in via del tutto accidentale, mi sono state diagnosticate via via altre patologie, croniche ed autoimmuni. Farò l’elenco, attenzione però, non a scopo vittimistico, lo farò perché mi sono sorti dei dubbi, dubbi che si rafforzano anche con il sentire, conoscere storie come la mia tramite il racconto di altri malati che si sono trovati nelle mie stesse condizioni, cioè aver avuto la diagnosi, il marchio “fibromialgia”, ed aver trovato, da quel momento in poi, un muro di gomma di fronte ad ogni richiesta di aiuto, perennemente inascoltati, marchiati come pazienti con diagnosi di malattia incurabile o immaginaria. Mentre subivo tutto questo, covavo ben altre malattie dentro di me, che purtroppo si sono evidenziate quando ormai non potevano più essere ignorate nemmeno dal più stolto degli uomini con il camice bianco.

Ecco l’elenco, non in ordine di diagnosi medica:

Fibromialgia, Artrite Psoriasica, Psoriasi, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteocondrite di 4° livello alle caviglie , Spasmofilia, Artrosi mani e piedi.

Quali sono i dubbi che oggi mi assalgono?

Sono fibromialgica e tutte queste malattie sono correlate ad essa?

Non sono fibromialgica e quel giorno, il giorno in cui le mie gambe erano diventate di cemento e avevo perso la sensibilità, non erano altro che una sorte di “campanello di allarme” di tutto quello che poi è venuto dopo?

Come sapete tutti, non sono un medico, non ho studiato medicina, ma da malata mi pongo tante domande, ragiono tanto su tutti questi anni, 8 lunghissimi anni passati con dolori sempre più forti, anni in cui ho dovuto necessariamente gestire e sopportare incomprensioni, accrescere consapevolezza e coltivare pazienza, in mezzo a visite, esami e tanto tanto altro che non mi va di raccontare, ma che purtroppo ho vissuto. Sono giunta ad una conclusione e ripensando ad un proverbio che recita “E’ un gran medico chi conosce il suo male” ho maturato l’idea che la fibromialgia sia solo un campanello d’allarme, un’avvisaglia, e come tale sia la punta dell’iceberg di altre malattie.

E non essendo un medico, da anni parlo e scrivo solo per raccontare la mia esperienza personale, e quando nei gruppi che facilito, ascolto le storie di persone che soffrono come me, mi accorgo che in maniera simile a me, negli anni della loro vita di “fibromialgici” hanno sviluppato ben altre malattie, molte di esse di origine autoimmune.

Quindi ciò che mi domando sempre più insistentemente è: la Fibromialgia esiste come malattia a sé stante, oppure è una sindrome vera e propria, un insieme di sintomi che si manifestano in presenza di altre malattie che per comodo non vengono più ricercate, coperte dal mantello Fibromialgia, lasciando che esse stesse progrediscano fintanto che non esplodono nella loro gravità?

Sono dubbi legittimi, di una malata cronica che non ne può più di sopportare il male che non passa mai, e l’immobilismo, l’ignoranza, la mancanza di empatia e di ascolto.

Rosaria Mastronardo

Il ruolo e l’importanza delle associazioni dei malati.

Fare volontariato in enti del terzo settore, e in particolare in enti con la specificità di rappresentare le persone con malattie croniche, è un’attività libera e gratuita, da svolgere per ragioni di solidarietà e di giustizia sociale.

Il volontariato nasce dalla spontanea volontà di persone di fronte a problemi non risolti o non affrontati dallo Stato.

Una delle caratteristiche del volontariato è l’anteporre il benessere collettivo al massimo profitto individuale senza lasciare nessuno sotto il livello di sussistenza. Il volontariato è sempre una testimonianza di solidarietà umana, è l’espressione della volontà di una o più persone di rendersi disponibili per aiutare chi è in difficoltà.

La sua dimensione sociale consiste nel rappresentare e promuovere il bene comune di quella parte di persone che sono deboli, sfruttate ed abbandonate.

Il malato affronta momenti terribili, sia per il proprio stato fisico ma anche per quello mentale.

Nel corso degli anni il ruolo delle associazioni sta cambiando, incentrando il proprio percorso con e per il prossimo, nell’ottica di fare advocacy, intesa come tutte quelle azioni per cui un soggetto si fa promotore per sostenere attivamente una causa espressa da una persona o da un gruppo di persone, in modo da migliorare la salute dei singoli e della comunità.

Il ruolo delle associazioni dei pazienti è fondamentale nel nostro Paese, nell’incoraggiare politiche mirate, nel portare avanti ricerche ed interventi di assistenza sanitaria. È un ruolo fondamentale anche quello di dare un aiuto alla persona nell’accesso ai farmaci e alle cure.

In alcuni casi è merito proprio delle attività di queste associazioni se la società ha acquisito la consapevolezza della specificità delle malattie rare e croniche e dei problemi che esse comportano.

In alcuni casi il lavoro delle associazioni ha anche contribuito a modificare i rapporti tra le istituzioni – siano esse nazionali, regionali o locali – e la comunità dei malati, rimuovendo molte delle barriere esistenti.

È un diritto del paziente orientare le scelte sulla propria malattia o sulla propria condizione, sulle modalità di trattarla e sul percorso da seguire.

Il punto di forza delle malattie croniche, insieme a quelle rare, è la consapevolezza e l’autodeterminazione del paziente, il quale, oltre a condividere i bisogni derivanti dalle difficoltà del trattamento della malattia, chiede a gran voce sforzi coordinati tra le varie associazioni per migliorare la conoscenza e l’assistenza.

È perciò necessario che gli operatori sanitari e i medici si facciano promotori di un rapporto costruttivo e collaborativo con i pazienti, incoraggiando la loro informazione e sostenendo atteggiamenti solidali e comunitari. Per contro, la partecipazione ai processi decisionali da parte delle organizzazioni dei pazienti richiede forte senso civico e capacità di agire nell’interesse della collettività, e a questo non giova la frammentazione delle loro rappresentanze.

Le associazioni che si occupano dei malati dovrebbero occuparsi di fornire informazioni concrete relative malattia; informazioni più concrete sull’arrivo e sul decorso della malattia; dovrebbero essere i soggetti principali nel supporto e nel sostegno dei malati durante la cura; dovrebbero essere i veri portatori i bisogni e delle attese dei malati nei confronti delle strutture sanitarie e dei relativi decisori politici.

DOVREBBERO

L’associazionismo è uno dei beni più preziosi per la comunità dei pazienti, in particolare di quelli con malattia rara.

Le associazioni svolgono un’importante opera di educazione sanitaria e promozione dei comportamenti favorevoli alla salute che aiutano le persone ad acquisire gli strumenti critici utili a prendere le migliori decisioni per la loro salute. L’opera di informazione svolta tende a ridurre il gap di conoscenze che esiste tra medici e pazienti e a incrementare il processo di empowerment sia dell’individuo che del gruppo. Si tratta di un processo di crescita basato sul rafforzamento della stima di sé che porta l’individuo ad acquisire nuove risorse e ad appropriarsi consapevolmente del proprio potenziale.

Nel tempo il ruolo delle associazioni dei pazienti si è evoluto: da portavoce dei bisogni a soggetti attivi che rivendicano un ruolo da protagonisti nei processi decisionali sui percorsi diagnostico-terapeutici dei servizi assistenziali e di cura, sull’accesso ai farmaci, sulle politiche sociali di sostegno e sulla promozione della qualità di vita.

Ancora oggi il 75% delle associazioni dichiara di essere poco coinvolta nei processi decisionali che riguardano i percorsi diagnostico-terapeutici, mentre il 91% ha difficoltà di tipo economico. Eppure, per le istituzioni, il loro ruolo è visto come insostituibile per una gestione condivisa delle politiche sanitarie e assistenziali.

Persiste ancora la situazione in cui ciascuna associazione, che opera in quest’ambito, porta avanti il proprio impegno autonomamente nei confronti del malato cronico e questo è un danno per il paziente, perché davanti alle istituzioni non traspare la necessaria compattezza ed unicità desiderata. È invece importante sensibilizzare gli enti di terzo settore a fare rete per costruire percorsi e realizzare progetti condivisi. Allo stato dei fatti è difficile interagire con i medici e con le istituzioni, e arrivare a quelli che sono gli obiettivi che l’associazione dovrebbe avere nel suo “DNA associativo”.

La mancanza di un organismo unitario, che agisca per la tutela dei diritti dei malati, rischia di favorire la frammentazione associativa che, a sua volta, non consente di svolgere al meglio il ruolo di portavoce, di fronte alle istituzioni, delle istanze dei pazienti.

Mai come in quest’ultimi anni si sente l’esigenza di rafforzare il ruolo degli enti di terzo settore che operano in ambito sanitario a sostegno e a tutela dei pazienti. Esse stanno diventando un soggetto che concorre alla costruzione e allo sviluppo di alcune delle più importanti politiche sanitarie, in oncologia come nelle malattie rare, nelle malattie metaboliche come nella reumatologia.

Bibliografia

Paltrinieri A., Giangiacomo L., Le associazioni di malati nel Web, Il Pensiero Scientifico Editore,

Milano, 2009;

Greenhalgh, T., Hurwitz B., 1999, Narrative based medicine: why study narrative?, in “Clinical research ed.”, 1999 Jan 2, 318(7175):48-50; doi: 10.1136/bmj.318.7175.48;

SWG (a cura di), Il processo di empowerment. Stato dell’arte, aspettative e richieste concrete delle associazioni dei pazienti a confronto con le istituzioni, Fondazione MSD, in collaborazione con Edizioni Health Communication, 2014.

Questo testo, lo trovate su: Le Briciole – CESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione.

La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

E’ stato scritto da Rosaria Mastronardo: facilitatrice di due gruppI di auto aiuto dal nome “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”, il primo, in presenza, costituito il 6 settembre del 2018, il secondo, in modalità on line, il 24 febbraio 2021. Il suo motto è: “Mi aiuto aiutando”.

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.

Cosa mi aiuta a vivere la vita con le mie malattie e sindrome croniche?

Non sempre funzionano, però ci provo.

Come molti altri nella mia situazione, ho dovuto imparare a convivere con delle malattie e sindrome debilitanti. La fibromialgia, l’Artrite Psoriasica, la Tiroidite di Hashimoto, la Sindrome di Reynaud, una Osteoartrite di 4° livello alle caviglie che ha danneggiato gradualmente cartilagine e tessuti circostanti, tanto da impedirmi di fare le mie belle passeggiate, la Spasmofilia, la Psoriasi, Neuropatie varie, carpale, ulnare e alle spalle, che hanno tutti influenzato il mio modo di vivere.

Cosa faccio per superare tutte le difficoltà legate a queste condizioni di cronicità?

Mi rilasso:

Non mi rilasso con nessuna tecnica nota a tanti di voi, come fare Yoga, Respirazione o altro, io mi rilasso leggendo e scrivendo, nonostante faccia moltissima fatica con le varie neuropatie. Ho provato anche a fare Pilates ma, non fanno per me, ho scelto quello che mi dava più risultati positivi per la mia persona, scrivere e leggere. Sono e rimango una donna dinamica e fare esercizi di Yoga, Respirazione e tutta quella roba li, non facevano per me; Ho desistito.

Assumo dei farmaci:

La cosa non mi fa piacere. Non faccio i salti di gioia, anche perché di “saltare”, nelle mie condizioni, non è il caso, però, li devo prendere. Non sono tanti. Assumo quelli per la fibromialgia e poi, ultimamente, perché i farmaci più comuni per l’Artrite Psoriasica non facevano nessun effetto, assumo un biologico. Mi attengo, rigorosamente, a quanto detto e prescritto dai medici, oltre, non vado, anche perché, diciamola tutta, per i dolori a me, non c’è farmaco che tenga;

Semplificare al massimo:

Una piccola confessione per questo concetto. Ho una macchina per caffè espresso, è costata poco, è di quelle che fanno il caffè come al bar. Parte del mio concetto di semplificazione al massimo, è mantenere solo le cose che mi rendono felice. Il caffè mi rende molto felice! A te che leggi, ti chiedo: Cosa ti rende felice? Tienilo e sbarazzati di tutto il resto, ti fa bene, credimi;

Socializzo:

Sono fortunata ad avere una meravigliosa cerchia di familiari e amici che capiscono quando cancello all’ultimo minuto o rifiuto delle buone opportunità perché so come probabilmente mi sentirei dopo. A volte sono in grado di partecipare e a volte no, però se una cosa mi interessa molto, ho adottato un sistema. Mi metto a letto e cerco di riposarmi, così da non stare malissimo i giorni a seguire. Lo faccio se ne vale la pena, se non vale la pena, desisto, tanto non muore nessuno;

Faccio volontariato:

Diversi anni fa, ebbi una bellissima idea, volevo far nascere un gruppo di auto aiuto sulla fibromialgia. Mi sono formata e oggi sono la facilitatrice di due gruppi di auto aiuto. E’ la seconda cosa più bella che io abbia mai realizzato, la prima è stata quella di aver messo al mondo un figlio, che adoro. La forza di andare avanti è in questi due gruppi, io trovo un po di forza nei gruppi. Nei gruppi di auto aiuto, le persone affette da una malattia cronica, possono trovare un sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la tua sofferenza e il tuo disagio, puoi condividere emozioni e preoccupazioni, puoi confrontarti sulla gestione della tua quotidianità, aumentando la sicurezza in te e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della tua condizione. Nei gruppi si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita; questa condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita. Sono gratuiti. I gruppi, sono luoghi dove nessuno è giudicato, nei gruppi si trovano quei sostegni reciproci che restituiscono fiducia.

Durante questa esperienza, ho trovato donne e uomini uguali a me, nei gruppi ci confrontiamo, organizziamo, creiamo, ci divertiamo, ridiamo e piangiamo, ed è tutto condiviso. Ho trovato nuovi amici, nuove emozioni. Non tutti i giorni sono uguali, però quelle energie che sprigiona il gruppo, mi fa stare bene, mi aiuta. Certo, non guarirò da tutte le malattie e sindrome elencate sopra ma, quel dolore, quella sofferenza è in egual misura ripartito in quel cerchio e ha meno peso per me e per tutti quelli all’interno di quel cerchio.

Sentiti gratificato:

È facile cadere nel buco dell’autocommiserazione. Succede, qualche volta, anche me, vi ricordo che sono un comune essere umano, succede anche a me. Ma alzarmi presto al mattino, perché non riesco a dormire la notte e leggendo articoli di ogni genere che mi aiutano a scrivere, comunicare qualcosa sui problemi della vita di un malato cronico; prendere il mio caffè come se stessi al bar, pensare ad organizzare la mia giornata, sarà schiocco ma, mi aiuta a non pensare ai tanti dolori che provo.

Questi sono solo alcune cosa mi aiutano a vivere la vita con le mie malattie e sindrome croniche. Non sempre funzionano, però ci provo. Un giorno, ne scelgo uno e lo seguo fino in fondo. Per me sono come una “cassetta degli attrezzi” che decido di usare quando ne ho più bisogno.

Ecco, voglio terminare con un suggerimento. Prepara anche tu la tua “cassetta degli attrezzi”, mettici dentro quello che tu ritieni giusto per te, per vivere al meglio la tua vita.

Non solo per vivere, ma per vivere bene .

Rosaria Mastronardo

Con troppe diagnosi non è facile guardare il lato positivo della vita ma, ci provo.

Andiamo avanti……..

Le malattie croniche influenzano moltissimo tutti gli aspetti della mia vita. Ho molteplici malattie e sindromi che si incrociano tra di loro, sono difficili da trattare e interferiscono completamente su tutte le parti del mio corpo, con pochissime esclusioni, forse nessuna.

Ho scritto molto del mio dolore, dolore cronico. Forse in pochi sanno che non ho solo la fibromialgia ma, diverse patologie/malattie/sindromi. Ho deciso di renderle pubbliche perché, in questi giorni, mi sento sola e incompresa anche da chi ti sta vicino e dice di capirti. Mi sento come una “macchina” trascorro le mie giornate con il pilota automatico e sogno ad occhi aperti il momento in cui posso finalmente stendermi sul mio letto e provare a dormire e/o riposare.

Forse qualcuno non troverà interessante quello che scriverò ma, è importante per me.

Voglio essere vista e conosciuta non per diventare famosa, non per protagonismo, non me ne frega nulla, desidero far sapere SOLO quello che vivo ogni singolo giorno; non deve essere un segreto, meglio si sa di chi vive come vivo io, meglio è; lo faccio anche per sentirmi meno sola nelle dure sfide della quotidianità.

Sono purtroppo affetta da: Fibromialgia, Artrite Psoriasica, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteoartrite di 4° livello alle caviglie che ha danneggiato gradualmente cartilagine e tessuti circostanti, tanto da non riuscire più a camminare per lunghi tratti, Neurolisi del nervo ulnare bilaterale, già operata una volta al braccio sinistro, Spasmofilia, Cefalea, Psoriasi, Gastrite, Discopatie, Ernie e altro, mi fermo nell’elenco perché potrei sembrare in fin di vita. In alcuni momenti, vi giuro che, mi sento finita dentro.

Sono una mamma, una donna, una moglie, una lavoratrice e volontaria. Ebbene, si. Sono tutte queste cose. A volte mi viene da pensare che se non fossi malata potrei essere una “wonder woman“.

Ognuno ha il proprio insieme di sintomi che rendono difficile affrontare le sfide della vita. Non è semplicemente convivere con il dolore cronico. Ci sono così tanti altri sintomi che interferiscono con tutte le mie attività quotidiane, sintomi alcuni invisibili che solo io so che esistono e che provo sulla mia pelle, su ogni parte del mio corpo.

Una giornata tipica della mia vita consiste in una moltitudine di decisioni che portano a una reazione a catena su come andrà il giorno successivo, o anche la settimana successiva. Tutto, dalla cosa, il lavoro, il volontariato: è un consumare energia tutte le volte che faccio qualcosa, e tutte le volte che ne faccio una mi chiedo sempre se avrò la forza per fare la seconda, la terza e così via. Non sono uguali i giorni. Ci sono giorni buoni e giorni poco buoni ed io sono sempre li che faccio una cernita delle mie attività. E’ sempre così, tutti i giorni che Dio mette in terra.

Sono una mamma.

Fare la mamma non è facile. Ho desiderato essere mamma. Ho avuto un figlio che adoro. Cerco di stargli accanto il più possibile, anche se ora è grande ma, la mamma è sempre tale anche quando i figli crescono e sono autonomi. Non si smette di essere mamma, mamma si è SEMPRE.

Sono moglie e donna

Ho la fortuna di avere un uomo accanto che, nonostante le differenze caratteriali, è un uomo bravo e comprensivo. Credo, anzi sono certa che, non è facile vivere accanto a persone malate come me, che hanno bisogno sempre di un sostegno, di una mano, di essere moglie sempre. In questo, mi reputo fortunata. Il mio uomo, c’è.

Sono una lavoratrice

Sono fortunata, perché ho un lavoro. So quanto è difficile oggi avere un lavoro stabile. Sono fortunata anche perché, essendo il mio lavoro, tele-lavorabile, svolgo la mia attività da casa. Qualcuno, potrebbe pensare che sono una “privilegiata”. Forse si o forse no, non giudicate senza sapere. Non è che lavorando a casa la mia situazione di salute migliora. Io sono una malata cronica e cronica rimango anche se sono una telelavoratrice. Quindi, non avrò certo tutte quelle difficoltà che hanno tutti quelli che si recano sul posto di lavoro: alzarsi presto, preparasi, traffico, e altro ma i miei dolori, le mie difficoltà a stare seduta e ferma per lungo tempo non aiutano la mia condizione. Ho tanti vantaggi, è vero ma, la situazione “dolore cronico” non cambia, quello non via neppure se sei a casa. C’è, punto.

Sono una volontaria

Le mie numerose malattie/patologie/sindromi non sono venute tutte insieme, un po per volta, sono state “educate” con me, si sono presentate, tutte casualmente diagnosticate, una alla volta. All’inizio, mi fu diagnostica la fibromialgia e poi a seguire tutte le altre. Con la fibromialgia è iniziata la voglia in me di fare qualcosa. Malattia poco conosciuta, difficile da diagnosticare, ancora carente di un marcatore per una esatta diagnosi, non riconosciuta dal nostro SSN, tanti “sciacalli” in giro per il mondo che, in virtù di tutto quanto sopra detto, ti proponevano di tutto e di più promettendoti la guarigione, associazioni che pur di fare cassa e mostrarsi in TV, ti promettevano l’impegno a prendersi cura di te. Niente di tutto questo è accaduto, anzi, nonostante il mio impegno in alcune di esse, ho lasciato definitivamente quell’ambiente e mi dedico all’Auto Aiuto e collaboro solo con quelle Associazioni che, seriamente, si impegnano in questa lotta infinita per il riconoscimento, la sensibilizzazione e altro per la fibromialgia e per un concreto sostegno nei confronti dei malati cronici, anche se invisibili. Sono facilitatrice di due gruppi di Auto Aiuto.

All’inizio con alcune associazioni ho preso parte a numerosi eventi. Organizzarli, non era facile. Però, per il bene comune, stringi i denti e vai avanti. Oggi, ho deciso di non organizzare più nulla. Se qualcuno mi propone una partecipazione, volentieri aderisco ma, non organizzo nulla e non desidero far parte di nessuna associazione di malati fibromialgici, mi viene l’orticaria solo al pensiero.

Ho anche una passione, in verità ne ho diverse ma, alcune, per le mie malattie, non posso più fare, ne ho lasciata solo una. La scrittura. Amo scrivere. Non scrivo poesie, non scrivo racconti. Tutto quello che scrivo riguarda la mia situazione di malata cronica, invisibile, ignorata, nella società, nel mondo del lavoro e dallo Stato. Riporto testimonianze di malati ma, anche di vita vissuta, scrivo della mia esperienza con i gruppi di Auto Aiuto. Credo che, scrivere certe testimonianze di vita con il dolore cronico, con le malattie invisibile sia un modo per far conoscere le difficoltà di vita di persone che vivono questa condizione e soprattutto sensibilizzare quanto più possibile sul tema.

Forse a qualcuno questo testo, nel leggero, gli avrà portato un po di depressione o disgusto. Non è certo un testo divertente, di divertente, nel descrivere la vita di un malato cronico, non c’è nulla.

La vita di un malato cronico è così e in alcuni casi, anche peggio.

Vi confesso che le mie giornate, non sono tutte uguali, il mio umore cambia in virtù dell’intensità del dolore, delle mie difficoltà nel fare qualsiasi cosa. Piango, si a volte mi capita anche di piangere dal dolore, e ripeto a me stessa: resisti, combatti, vai avanti, non arrenderti. Hai ancora tanto da fare, da dire, da vivere. Una cara amica ieri mi ha ricordato che devo anche sapere ascoltare la malattia e fermarmi quando è alta la sofferenza, il dolore. Ha ragione da vendere la mia amica, ha ragione. Mi impegnerò ancora di più.

E come ci diciamo sempre io e lei: andiamo avanti…..

Rosaria Mastronardo

A tutti quelli che giudicano senza sapere, come si vive con una malattia cronica ed invisibile.

Alle donne e agli uomini che giudicano gli altri con la fibromialgia:

Capisco che possa essere triste sentire le persone condividere gli aspetti negativi della fibromialgia. È quasi estenuante in alcuni momenti oppure posso entrare, qualche volte, in empatia con la tua frustrazione. Forse tu stai negando oppure hai trovato qualcosa che funziona per te e credi veramente che la fibromialgia sia uguale per tutti. Non è così, purtroppo. Riguarda tutti in modo univoco.

Vorrei che fosse semplice come “riprendere in mano le nostre vite e smetterla di lamentarci ed essere solo positivi!” Ma non lo è. I nostri livelli di dolore e le nostre capacità variano da persona a persona così come altri sintomi. Gli altri sintomi a volte sono persino peggiori del dolore.

Scrivo questo non per sminuirvi, ma per cercare di mostrarvi che l’esercizio, dimostrato efficace per alcuni – non è un’opzione fattibile per tutti. Andavo in bici tutti i giorni, pioggia, freddo, vento fino a quando le mie gambe si paralizzarono, se le toccavo sentivo scosse che mi avvolgevano il corpo, fastidiosissime, in alcuni momenti, sentivo il fuoco avvolgere i miei muscoli. Nonostante questo, poco dopo, mi sono rimessa in movimento per cercare di riguadagnare alcune delle mie capacità fisiche. Oggi, non posso più farlo con grande mio rammarico.

Molti di noi stanno semplicemente cercando di trovare sollievo, il loro sollievo. Non siamo tutti in cerca di una “droga miracolosa”, di pietà o di elemosina. Molte di noi fanno parte di un gruppo di auto aiuto, un luogo “sicuro” “protetto”, perché nessuno ci giudica e ci incoraggiamo a vicenda. Vi posso assicurare che si, ci sono momenti di tristezza, di rabbia ma, solo momentanei, in quel cerchio che ci “abbraccia” tutte c’è una forza straordinaria, che ci rende più forti, più consapevoli. Possiamo lasciar andare ciò che sentiamo di non poter fare agli altri che vivono senza dolore cronico e/o una malattia invisibile.

Spero davvero che il tuo dolore tu possa continuarlo a gestirlo come credi. Non augurerei a nessuno il fuoco che ho in corpo e rimarrò sempre grata al gruppo che mi ha aiutata a restare a galla quando volevo smettere di nuotare e affondare.

Rosaria Mastronardo