159 giorni di attesa. Inaccettabile.

nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali” Don Milani

Una mia lettera al Presidente della Regione Toscana e all’assessore alla Sanità Toscana

Buongiorno,

mi chiamo Rosaria Mastronardo, vivo a Firenze. Sono una donna, una mamma, una lavoratrice e volontaria, nonostante le mie precarie condizioni di salute.

Sì, perché sono affetta da: Artrite Psoriasica Sieronegativa, Fibromialgia, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteoartrite di 4° livello alle caviglie, che ha danneggiato gradualmente cartilagine e tessuti circostanti, tanto da non riuscire più a camminare che per pochi brevi tratti; in più affetta da Neurolisi (già operata una volta), da Spasmofilia e da una leggera Psoriasi. Infine, si fa per dire, sono in lista di attesa per un intervento “complesso” alla spalla sinistra, compromessa da Artrosi, problemi del sovraspinato e da una formazione di tipo cistico, plurisettata e pluriconcamerata che deforma il muscolo stesso e non mi permette di sollevare il braccio.

Vi scrivo per manifestarvi tutta la mia rabbia, la mia incredulità, il mio disappunto, la mia delusione, il mio dispiacere, il mio rammarico e rincrescimento per la questione che illustrerò, che mi riguarda personalmente, ma che deduco, dai fatti che racconterò, possa riguardare tanti cittadini nelle mie stesse condizioni.

Per la mia condizione di disabile cronica ho fatto richiesta nel 2021 del contrassegno del parcheggio per disabili.

La prima volta, nel 2020, dopo una prima visita presso il distretto sanitario dell’Azienda Usl Toscana Centro, in via Lungarno Santa Rosa a Firenze, presso l’ambulatorio della medicina legale, la dottoressa ritenne opportuno rilasciarmi solo per 1 anno il contrassegno, che ritirai presso la sede del Parterre, sempre a Firenze. Dopo un anno la mia condizione è peggiorata, tant’è che, dopo essere ritornata nella stessa struttura e con la stessa dottoressa, quest’ultima firmò un documento per il secondo contrassegno con validità triennale.

Come mio solito, avendo tante scadenze, tra visite mediche, esami ematici e diagnostici, ancora di più attualmente poiché seguo una terapia biologica, pensai fosse utile occuparmi del contrassegno ben prima della scadenza, anzi, MOLTO PRIMA DELLA DATA DI SCADENZA indicata sul secondo contrassegno, numero 061520 con scadenza 19 marzo 2023: chiamo il numero unico di prenotazione del CUP metropolitano e chiedo l’appuntamento per il rinnovo del contrassegno. La chiamata al CUP viene fatta il giorno 21 novembre 2022, AVETE LETTO BENE, 21 novembre del 2022. L’operatrice che prese la mia chiamata, dispiaciuta, quasi non voleva dirmelo, mi comunicò che il primo appuntamento libero per la “TERZA” visita presso il distretto sanitario alla medicina legale era per il giorno 29 aprile del 2023 (159 giorni dopo); quando le feci presente che sul contrassegno la data di scadenza era il 19 marzo 2023 e che la sottoscritta per ben 41 giorni doveva sospenderne l’utilizzo, dispiaciuta, mi rispose che non poteva fare altro; mi suggerì di richiamare il CUP per verificare altre disponibilità liberatesi per disdette e/o altro, cosa che ho ripetutamente fatto senza successo, rimanendo pertanto con la mia data originale di appuntamento: 29 aprile 2023

Io vi chiedo se questa incresciosa deplorevole, deprecabile, fastidiosa, seccante e sgradevole, situazione, si possa accettare.

Aspettare 159 giorni per una visita legale che mi serve per avere un contrassegno di parcheggio per disabili nelle mie condizioni? NON E’ ACCETTABILE. Ho cercato di capire, chiamando il numero verde 800339891 (numero di Firenze per Permessi ZTL Invalidi e Posto Personalizzato), cosa poter fare per avere una sorta di “copertura” per quei 41 giorni che mi separavano dalla visita medica; sono stati gentilissimi, erano al corrente di questi ritardi, ma la risposta è comunque stata che non potevano far nulla, perché questa struttura è tenuta al rilascio dei contrassegni solo dopo una visita alla medicina legale. Sono venuta a conoscenza, successivamente, che questo enorme ritardo nell’evasione degli appuntamenti, a carico della medicina legale, era dovuto al fatto che a Firenze, vi era solo 1 (UNO) medico che si occupava, presso il distretto di Lungarno Santa Rosa, di fare gli accertamenti in ambulatorio monocratico, e che anche andando fuori dalla città di Firenze, la situazione non cambiava più di tanto.

Tutti sapevano, tutti erano al corrente di questa situazione, ma NESSUNO ha provveduto a porvi rimedio.

Ora, per carità, non “attaccatevi” alla solita giustificazione del Covid, no, vi prego, non offendete la mia intelligenza. Durante la pandemia, tutti a dire le stesse cose: dobbiamo cambiare, più medici, più infermieri, più fondi alla ricerca, più di tutto nella Sanità. TUTTO DISATTESO, anzi è TUTTO peggiorato, si sta peggio oggi che durante il periodo pandemico.

Forse aveva ragione don Milani che diceva: “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali

Spiegatemi, cortesemente perché una donna affetta da una serie di malattie croniche CERTIFICATE debba essere sottoposta a questa via crucis burocratica periodicamente? Si pensa forse che io guarisca? Che io migliori nel tempo?

Qualcuno ancora crede che dalle malattie croniche e degenerative si possa guarire? Io sono una malata cronica e cronica rimango perché non c’è nulla che faccia guarire dalle malattie croniche, altrimenti verrebbero chiamate in altro modo.

In attesa di una vostra cortese risposta, saluto.

Rosaria Mastronardo

Il ruolo e l’importanza delle associazioni dei malati.

Fare volontariato in enti del terzo settore, e in particolare in enti con la specificità di rappresentare le persone con malattie croniche, è un’attività libera e gratuita, da svolgere per ragioni di solidarietà e di giustizia sociale.

Il volontariato nasce dalla spontanea volontà di persone di fronte a problemi non risolti o non affrontati dallo Stato.

Una delle caratteristiche del volontariato è l’anteporre il benessere collettivo al massimo profitto individuale senza lasciare nessuno sotto il livello di sussistenza. Il volontariato è sempre una testimonianza di solidarietà umana, è l’espressione della volontà di una o più persone di rendersi disponibili per aiutare chi è in difficoltà.

La sua dimensione sociale consiste nel rappresentare e promuovere il bene comune di quella parte di persone che sono deboli, sfruttate ed abbandonate.

Il malato affronta momenti terribili, sia per il proprio stato fisico ma anche per quello mentale.

Nel corso degli anni il ruolo delle associazioni sta cambiando, incentrando il proprio percorso con e per il prossimo, nell’ottica di fare advocacy, intesa come tutte quelle azioni per cui un soggetto si fa promotore per sostenere attivamente una causa espressa da una persona o da un gruppo di persone, in modo da migliorare la salute dei singoli e della comunità.

Il ruolo delle associazioni dei pazienti è fondamentale nel nostro Paese, nell’incoraggiare politiche mirate, nel portare avanti ricerche ed interventi di assistenza sanitaria. È un ruolo fondamentale anche quello di dare un aiuto alla persona nell’accesso ai farmaci e alle cure.

In alcuni casi è merito proprio delle attività di queste associazioni se la società ha acquisito la consapevolezza della specificità delle malattie rare e croniche e dei problemi che esse comportano.

In alcuni casi il lavoro delle associazioni ha anche contribuito a modificare i rapporti tra le istituzioni – siano esse nazionali, regionali o locali – e la comunità dei malati, rimuovendo molte delle barriere esistenti.

È un diritto del paziente orientare le scelte sulla propria malattia o sulla propria condizione, sulle modalità di trattarla e sul percorso da seguire.

Il punto di forza delle malattie croniche, insieme a quelle rare, è la consapevolezza e l’autodeterminazione del paziente, il quale, oltre a condividere i bisogni derivanti dalle difficoltà del trattamento della malattia, chiede a gran voce sforzi coordinati tra le varie associazioni per migliorare la conoscenza e l’assistenza.

È perciò necessario che gli operatori sanitari e i medici si facciano promotori di un rapporto costruttivo e collaborativo con i pazienti, incoraggiando la loro informazione e sostenendo atteggiamenti solidali e comunitari. Per contro, la partecipazione ai processi decisionali da parte delle organizzazioni dei pazienti richiede forte senso civico e capacità di agire nell’interesse della collettività, e a questo non giova la frammentazione delle loro rappresentanze.

Le associazioni che si occupano dei malati dovrebbero occuparsi di fornire informazioni concrete relative malattia; informazioni più concrete sull’arrivo e sul decorso della malattia; dovrebbero essere i soggetti principali nel supporto e nel sostegno dei malati durante la cura; dovrebbero essere i veri portatori i bisogni e delle attese dei malati nei confronti delle strutture sanitarie e dei relativi decisori politici.

DOVREBBERO

L’associazionismo è uno dei beni più preziosi per la comunità dei pazienti, in particolare di quelli con malattia rara.

Le associazioni svolgono un’importante opera di educazione sanitaria e promozione dei comportamenti favorevoli alla salute che aiutano le persone ad acquisire gli strumenti critici utili a prendere le migliori decisioni per la loro salute. L’opera di informazione svolta tende a ridurre il gap di conoscenze che esiste tra medici e pazienti e a incrementare il processo di empowerment sia dell’individuo che del gruppo. Si tratta di un processo di crescita basato sul rafforzamento della stima di sé che porta l’individuo ad acquisire nuove risorse e ad appropriarsi consapevolmente del proprio potenziale.

Nel tempo il ruolo delle associazioni dei pazienti si è evoluto: da portavoce dei bisogni a soggetti attivi che rivendicano un ruolo da protagonisti nei processi decisionali sui percorsi diagnostico-terapeutici dei servizi assistenziali e di cura, sull’accesso ai farmaci, sulle politiche sociali di sostegno e sulla promozione della qualità di vita.

Ancora oggi il 75% delle associazioni dichiara di essere poco coinvolta nei processi decisionali che riguardano i percorsi diagnostico-terapeutici, mentre il 91% ha difficoltà di tipo economico. Eppure, per le istituzioni, il loro ruolo è visto come insostituibile per una gestione condivisa delle politiche sanitarie e assistenziali.

Persiste ancora la situazione in cui ciascuna associazione, che opera in quest’ambito, porta avanti il proprio impegno autonomamente nei confronti del malato cronico e questo è un danno per il paziente, perché davanti alle istituzioni non traspare la necessaria compattezza ed unicità desiderata. È invece importante sensibilizzare gli enti di terzo settore a fare rete per costruire percorsi e realizzare progetti condivisi. Allo stato dei fatti è difficile interagire con i medici e con le istituzioni, e arrivare a quelli che sono gli obiettivi che l’associazione dovrebbe avere nel suo “DNA associativo”.

La mancanza di un organismo unitario, che agisca per la tutela dei diritti dei malati, rischia di favorire la frammentazione associativa che, a sua volta, non consente di svolgere al meglio il ruolo di portavoce, di fronte alle istituzioni, delle istanze dei pazienti.

Mai come in quest’ultimi anni si sente l’esigenza di rafforzare il ruolo degli enti di terzo settore che operano in ambito sanitario a sostegno e a tutela dei pazienti. Esse stanno diventando un soggetto che concorre alla costruzione e allo sviluppo di alcune delle più importanti politiche sanitarie, in oncologia come nelle malattie rare, nelle malattie metaboliche come nella reumatologia.

Bibliografia

Paltrinieri A., Giangiacomo L., Le associazioni di malati nel Web, Il Pensiero Scientifico Editore,

Milano, 2009;

Greenhalgh, T., Hurwitz B., 1999, Narrative based medicine: why study narrative?, in “Clinical research ed.”, 1999 Jan 2, 318(7175):48-50; doi: 10.1136/bmj.318.7175.48;

SWG (a cura di), Il processo di empowerment. Stato dell’arte, aspettative e richieste concrete delle associazioni dei pazienti a confronto con le istituzioni, Fondazione MSD, in collaborazione con Edizioni Health Communication, 2014.

Questo testo, lo trovate su: Le Briciole – CESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione.

La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

E’ stato scritto da Rosaria Mastronardo: facilitatrice di due gruppI di auto aiuto dal nome “Fibromialgia: Affrontiamola Insieme”, il primo, in presenza, costituito il 6 settembre del 2018, il secondo, in modalità on line, il 24 febbraio 2021. Il suo motto è: “Mi aiuto aiutando”.

Prendersi cura

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione.

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L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Oggi, gli ultimi due capitoli: “Prendersi cura” e “Metafore nutrienti

Prendersi cura

Sono diversi i contesti in cui ci si può occupare di tutte quelle dinamiche di tipo psicologico cui si è fatto cenno fino a ora. Tra questi vi è senza dubbio quello del sostegno psicologico o della psicoterapia, e cioè di un percorso ad hoc in cui il paziente (o il nucleo familiare) riesca non solo a occuparsi del proprio mondo emotivo ma anche a riappropriarsi, magari in modo differente, della propria esistenza. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, anche tutta una serie di disagi psicologici legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che può essere diverso da prima. Può capitare che la sofferenza per i cambiamenti legati alla malattia impedisca alla persona di sfruttare pienamente le proprie potenzialità che restano come imprigionate all’interno di un groviglio emotivo. Nella dimensione intersoggettiva che viene costantemente costruita e co-costruita, il paziente e lo psicologo s’incontrano e si alleano per percorrere insieme un tratto di strada più o meno lungo, dov’è possibile sperimentare un nuovo sguardo su ciò che accade (o è accaduto) e con esso dare anche nuovi significati. Lo psicologo può essere uno degli interlocutori, anche se non il solo, con cui è possibile condividere la sofferenza e il dolore che caratterizzano il rapporto con la dimensione cronica della malattia, oltre che essere colui che si occupa degli eventuali disturbi di natura psicologica, delle difficoltà di adattamento, delle crisi emotive sia che esse riguardino il paziente, i caregiver o i familiari.

È importante che nel tempo il paziente, all’interno di uno spazio a lui dedicato, possa comprendere e diventare cosciente che la malattia è una dimensione della propria realtà, è un aspetto della propria vita come lo sono molti altri, ed è con tutti gli ambiti che la caratterizzano, siano essi limiti o risorse, che questa vita sarà vissuta d’ora in avanti. Questa consapevolezza aiuta il paziente anche a dare una nuova dislocazione alle proprie risorse ed energie su diverse aree della propria esistenza: è un’occasione per ripensare alla propria vita, alle relazioni interpersonali, agli obblighi e, soprattutto, alle proprie priorità. La pratica clinica ha messo in evidenza come, per molti pazienti, il confronto con la cronicità abbia permesso loro di entrare in contatto con parti di sé che ignoravano (Giuntoli, 2013). Mi sembra importante condividere alcuni frammenti dei colloqui che ho tratto dalle sedute coi miei pazienti in psicoterapia:

«Ora sono diventato consapevole dei miei limiti, imparando a capire fin dove potermi spingere e come raggiungere un determinato obiettivo, aggirando l’ostacolo della malattia».

«Mi fa vivere l’oggi intensamente e i colori sono più netti».

«Sì, inizialmente mi aveva indebolita ora invece mi ha resa più forte. Non mi sono fatta sconfiggere dalla malattia ma ho preso la mia vita in mano facendo le cose che tutti i comuni mortali fanno senza togliermi nulla».

Questi fotogrammi di vita vissuta ci insegnano un’importante verità: benessere non significa assenza di malattia fisica e/o psicologica, bensì il perseguimento di obiettivi e scopi di vita, pur in una condizione di malattia, o di disagio. In tali condizioni le risorse psicologiche assumono un ruolo ancora più centrale per la promozione di un benessere che va oltre, e al di là, delle difficoltà o dei limiti.

Metafore nutrienti

La parola ‘limite’, o ciò che noi consideriamo essere tale, mi richiama alla mente la mia infanzia. Quando ero bambina vivevo a Ostuni, un piccolo paese della Puglia, dai più conosciuta come la “città bianca”. Erano gli anni 80 e di fronte alla mia casa si trovava un negozio di elettrodomestici a conduzione familiare. Non mi riferisco di certo alle grandi catene di distribuzione a cui l’incedere veloce della tecnologia ci ha abituati, ma a quei negozietti che c’erano una volta e che vendevano un po’ di tutto: dal cavo per la TV allo spremiagrumi. In quest’accozzaglia di cose c’erano anche le lampadine, quelle a incandescenza col filamento di tungsteno, e i miei genitori mi mandavano a comprarle. Di preciso non mi ricordo quanti anni avevo, forse sette o otto, ma ricordo bene due cose: la prima, è che arrivavo a malapena al bancone del negozio; la seconda, invece, non riguarda me, ma la signorina che c’era dietro quello stesso bancone e che, prima di vendermi la lampadina, la provava su una pila. Era una di quelle pile piatte e rettangolari con due alette metalliche nella parte superiore. È ormai da tempo che non me ne capita una tra le mani, pensavo che non fossero più in produzione, invece le producono ancora. Documentandomi ho scoperto che la pila in questione era da 4.5 volt.

Dunque, per provare se la lampadina fosse funzionante, la base veniva messa a contatto con le due alette metalliche della pila. Se la lampadina si accendeva veniva venduta, altrimenti era sostituita. Che una lampadina si accendesse a contatto con una pila, incantava allora i miei occhi di bambina. Negli anni però la magia di allora mi ha fatto riflettere. Come è fatta una pila? Una pila è composta da un polo positivo e da uno negativo. Ho poi scoperto che l’aletta metallica che corrisponde al polo negativo della pila è più lunga di quella che corrisponde al polo positivo. Se io decidessi di sostituire il polo negativo con quello positivo, la lampadina si accenderebbe oppure no? No, la lampadina non si accenderebbe. Perché la lampadina si accenda sono necessari il polo positivo e quello negativo: non ce n’è uno più importante dell’altro, entrambi hanno la stessa identica funzione, ovvero far sì che la lampadina si accenda. Quel compito che mi veniva affidato da bambina, e che mi faceva sentire grande, mi ha regalato oggi, che lo sono davvero, un’importante consapevolezza: i nostri limiti, i nostri disagi, le nostre difficoltà, i nostri poli negativi sono importanti tanto quanto quelli positivi, come le nostre risorse e i nostri punti di forza, perché entrambi fanno sì che la nostra ‘lampadina’ si possa accendere. Allora il mio invito è proprio questo: abbiate cura di tutto ciò che vive dentro di voi, sia esso positivo o negativo, solo così la vostra ‘lampadina’ si potrà accendere!

Dottoressa Ilaria Bagnulo

Essere felice dopo una diagnosi di fibromialgia, è possibile?

Una testimonianza di Tammy Freeman che scrive delle sue esperienze in una community dando voce alla popolazione di malati cronici.

Tre giorni fa sono andata da un nuovo specialista, un reumatologo. Ero preoccupata, poiché questo sarebbe stato il mio settimo specialista, ma volevo davvero capire cosa stesse causando la mia stanchezza e il mio dolore diffuso. Mi era già stata diagnosticata l’Hashimoto, e questo da sola poteva causare affaticamento e dolore ma non ha spiegato completamente perché, ad esempio, posso dormire per 15 ore e svegliarmi ancora stanca e per niente riposata. Perché ho un dolore quotidiano che mi distrae dalle mie attività quotidiane. Perché il mio corpo si sente solo pesante come un’ancora.

Quindi, sono entrata nervosamente nell’ambulatorio del reumatologo e, per fortuna, mi ha preso sul serio, anche quando ho fatto una battuta imbarazzante sull’essere una ipocondriaca. Ha fatto un esame fisico completo, ha rivisto il mio precedente esame del sangue, ha discusso la storia familiare, e poi abbiamo avuto una lunga conversazione su come mi sento, quali sono i miei sintomi, cosa sto già facendo per controllare quei sintomi, e così via. Ha trascorso molto tempo con me. E sulla base di tutti questi elementi, e escludendo alcuni altri come la malattia di Lyme e l’artrite, ha detto che è fibromialgia.

Che peccato, mi disse il reumatologo e non capii subito, poi ridacchiò un po, tornando serio, aggiunse: “Leggerai che non è una vera malattia, ma lo è. È una vera malattia e non è nella tua testa”.

La mia reazione? Sono scoppiata in lacrime e senza fermarmi gli ho confidato quanto mi mancasse la persona che ero prima, quella che si poteva alzare alle 6 del mattino e che si teneva occupata fino alle 23 e che era in grado di rifare tutto il giorno successivo. Gli ho confidato della mia pigrizia insorta negli ultimi quattro anni, cioè quando sono iniziati i miei problemi di salute e come la mia salute emotiva fosse stata influenzata, e come mi sentivo in colpa per quello che vivevo. Ha ascoltato con calma e mi ha detto che questi sentimenti spesso sono causa della fibromialgia e mi ha detto con fermezza che non sono affatto pigra. Ha detto anche che, dal nostro colloquio, da quanto raccontato in quel giorno, che io ero in grado, per la determinazione, di prendermi cura di me stessa.

Ho lasciato quell’ambulatorio sentendomi rinata. Certo, faceva piacere che tutto quanto mi stesse capitanando avesse un nome e non fosse frutto della mia pigrizia o ipocondria.

Anche giorni dopo, ho continuato a provare un sollievo assoluto. Ho un nome per la stanchezza travolgente e ho una ragione per cui i miei fianchi, la schiena, le spalle fanno costantemente male e ho quelle sensazioni di spilli e aghi nelle mie mani. Ancora non cambia nulla ma di certo non è nella mia testa, non è un riflesso di chi sono, non è un fallimento da parte mia, non è a causa di qualcosa che sto facendo male o non facendo bene. Non l’ho fatto a me stessa. Sono sollevata dal fatto che sebbene questa sia una malattia che dura tutta la vita, posso smettere di inseguire specialisti e nuovi esami del sangue e infinite ricerche su Google e posso smettere di cercare di capire tutto: Perché mi fa male la testa? Sono disidratata? È un mal di testa da stress? Mi fa male la schiena? Ho esagerato quando sono andato a fare la spesa e ho pulito la casa lo stesso giorno? Perché dormo così tanto? Sono depressa? non mi sento depressa, ma dormo mezza giornata, quindi forse ho bisogno di parlare con qualcuno. Perché la mia mano è di nuovo formicolante? Sto bene. Non è nella mia testa. C’è una ragione per tutto questo. Non può essere curato, ma può essere controllato, ma soprattutto, non è nella mia testa e posso smettere di cercare costantemente risposte. Ora, basta.

E sono grata per questo. Non fraintendetemi. Non lo augurerei a nessuno. Ma è un sollievo avere una ragione medica, scientifica, ufficiale per tutti questi sintomi.. Non è nella mia testa. Sto andanda avanti. Posso prendermi cura di me stessa, e questo è un enorme sollievo. Quindi oggi sono felice.

Devo andare avanti, andiamo avanti.

Al medico che ha ripristinato la mia fede nella medicina.

Una testimonianza di Peyton Izzie fibromialgiaca, che ha avuto la fortuna di incontrare un professionista che l’ha capita, compresa e sostenuta.

Chi è Peyton Izzie? Questa è una sua lettera ad un medico che la segue nella sua lunga lotta con la fibromialgia. Chi sa quante di noi, avrebbero voluto fare un gesto simile se avessimo incontrato un medico come quello di Peyton.

Peyton è una di noi che nel suo blog ha scritto:

Quando ho perso le forze, ho ritrovato la mia voce. Fibromialgia, disturbo da stress post-traumatico, cecità parziale e sordità… tanta sfortuna, ma ho continuato a lottare per un trattamento equo per le malattie invisibili. A parte quando dormo, mangio o scrivo, non sono mai più felice di quando ho una macchina fotografica in mano e qualcosa di bello davanti al mio obiettivo”.

Caro Dottore,

Ci sono così tante cose che vorrei poterti dire, ma in tutta onestà, abbiamo solo dieci minuti insieme e di solito il mio corpo mi sta deludendo in così tanti modi che è impossibile per me parlare di qualcosa di diverso da come la fibromialgia sta rovinando il mio corpo.

Vorrei poterti portare a prendere un caffè, te lo meriti e raccontarti della prima volta che ci siamo incontrati. Vorrei poterti raccontare delle lacrime che ho pianto quando mi hai creduto quando ti ho raccontato i miei sintomi. Ti parlerei delle dozzine di dottori che avevo visto prima di te, dei respingimenti, del disgusto, dell’incredulità e dei commenti maleducati. Eri la luce alla fine di un tunnel lungo, oscuro e doloroso, e io ero stata nell’oscurità per così tanto tempo che ero convinta di essere diventata cieca.

Ti direi che hai ripristinato la mia fiducia nella medicina. Che anche se sono stata delusa così tante volte prima e innumerevoli volte dopo averti incontrato – non mi ha fatto così male, perché sapevo che potevo venire da te, piangere con te e trovare i passi successivi . Mi hai tenuto per mano, hai sentito le mie grida e placato le mie paure, e per questo ti sarò eternamente grata. Perché so che, qualunque cosa venga dopo in questa battaglia senza fine , che con te al mio fianco, potrei uscirne viva.

Arriva il punto in cui ti viene ripetuto più e più volte che è tutto nella tua testa, che non c’è niente che non va fisicamente, che devi solo sforzarti di più ed esercitarti di più, mangiare di meno, metterti in forma, essere in salute. Arriva il punto in cui hai sentito tutto questo così tanto che inizi a pensare che stai diventando pazza. Questo dolore è reale? Sto in qualche modo immaginando tutti i miei sintomi? Sono solo pigra? Inizi a chiederti se qualcuno ti prenderà mai sul serio, troverà qualcosa che non va in te e lavorerà per aiutarti.

Ed è qui che entri in gioco tu. Perché in ogni fase del mio viaggio, sei stato lì per condividere il mio disgusto, la mia rabbia e la mia indignazione per ogni dottore che si è scrollato di dosso i miei sintomi. Sei stato lì per riprendere la mia lotta quando sono troppo esausta per alzare la testa. E tu mi hai sempre creduta. Anche quando sembra ridicolo o improbabile, mi hai sempre preso sul serio e hai creduto che i miei sintomi fossero reali e li hai trattati seriamente come qualsiasi altra malattia fisica.

E prima che le nostre tazze di caffè finiscano, ti chiederei della tua vita. Sei felice? Hai tutto ciò di cui hai bisogno? Sei trattato in modo equo al lavoro? Ti darei il mio tempo e ti ascolterei. Per tutto il tempo che mi hai dato. Essere un medico è una professione meravigliosa e altruista, ma ci sono persone reali dietro le lauree in medicina e ascoltare / vedere il dolore che le persone provano giorno dopo giorno. Può logorarti.

Ho già detto quanto sia ingrata la professione medica, e quindi tutto quello che posso dire di nuovo è, grazie, per tutto quello che fai per me e per i molti altri pazienti sotto le tue cure. Se tutti i dottori fornissero come te e se usassero lo stesso standard di cura e trattamento che usi per me, allora la fibromialgia non sarebbe mentalmente dannosa la metà di quanto lo sia adesso. Tutto quello che possiamo fare è sperare che un giorno altri dottori seguano il tuo fulgido esempio.

Grazie per quello che sei

Peyton Izzie

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica.

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo è il primo di oggi.

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Quando si giunge finalmente alla diagnosi, questa può paradossalmente generare un momentaneo sollievo, perché il paziente si sente finalmente legittimato agli occhi degli altri nella sua condizione di sofferenza e malattia. Quella consolazione temporanea cede però ben presto il posto ad un coacervo di emozioni. Scoprire di essere ammalato, e di esserlo quasi certamente per sempre, crea comprensibilmente uno shock, una sorta di lacerazione interna, che fa vacillare il senso di certezza che fino a quel momento aveva accompagnato il percorso di crescita personale.

Ogni individuo ha infatti un personale e soggettivo modo di elaborare la malattia che l’ha colpito. La perdita dello stato di salute è infatti paragonabile a un vero e proprio “lutto” e per certi versi sembra ricalcare le fasi della sua elaborazione. La diagnosi, dopo quel momentaneo sollievo, potrebbe comportare nel paziente il manifestarsi di profonde reazioni emotive; se all’inizio possono portare a dissimulare comportamenti più o meno congrui a quanto sta accadendo, successivamente ci può essere la messa in campo di forti meccanismi difensivi, come la negazione, la proiezione, la regressione ma anche la razionalizzazione.

Il “lutto” genera una sorta di frattura tra ciò che si era prima che insorgesse la malattia e ciò che si è dopo; si tratta di uno spartiacque temporale che impone al paziente un confronto rispetto al proprio passato, sia esso più o meno recente, e un presente fatto di cambiamenti, di nuovi adattamenti e riadattamenti. È un percorso in divenire in cui il paziente deve imparare ad accogliere nella sua quotidianità, oltre agli aspetti prettamente organici della sua malattia, anche tutta una serie di nuove variabili con cui deve imparare a confrontarsi. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, una serie di disagi psicologici, legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che potrebbe essere diverso da ciò che è stato fino a quel momento.

Si tratta di un processo complesso in cui può anche accadere che il paziente, immerso nell’affannosa ricerca della dimensione in cui collocare il proprio malessere, ponga maggiormente la propria attenzione alla componente fisica del proprio disagio, focalizzandosi esclusivamente su tutti quegli aspetti negativi che la malattia ha comportato ed in particolar modo, rapito dall’ansia anticipatoria, su tutti quei progetti o attività che la nuova condizione di salute potrebbe non permettergli più di svolgere.

Tutto ciò lasciando in secondo piano gli aspetti psicologici implicati nell’eziologia dei sintomi. È come se la sofferenza fisica avesse il sopravvento su quella psichica, rispetto alla quale il paziente ha spesso difficoltà a entrare in contatto. Tale condizione, se protratta nel tempo, può causare una frattura tra la dimensione somatica e psichica; una frattura di cui è importante occuparsi in maniera tempestiva. I sintomi possono mantenersi silenti o peggiorare con il tempo, creando talvolta anche disagio, imbarazzo e vergogna o reazioni psicopatologiche specifiche. Numerosi studi hanno evidenziato una maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore e un maggior numero di agiti anticonservativi nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto ai gruppi normativi (Nordenstrom, 2011, Chiesa et. al., 2013).

Le reazioni dipendono dalle caratteristiche personali del paziente, dall’insieme dei significati attribuiti alla malattia e, soprattutto, dalle condizioni di cura. L’impossibilità di dare senso, anche parziale o temporaneo, agli eventi, alle emozioni rappresenta una delle situazioni di massima sofferenza per l’essere umano. Tutto ciò può incidere negativamente sulla compliance alle cure.

Sono questi gli effetti collaterali della malattia cronica che, nel momento in cui fa irruzione nella vita di un individuo, ne altera e infrange gran parte dei precedenti equilibri, imponendo, accanto al depauperarsi della salute fisica, anche la messa in discussione dell’identità personale, la cui costruzione è un processo in continua evoluzione che dura per tutta la vita e permette, pur mantenendo un senso di sé stabile, di operare dei cambiamenti in relazione alle esperienze vissute nel corso della propria esistenza.

Le caratteristiche di continuità e pervasività di tale condizione comportano, infatti, l’innescarsi di un lungo e non facile processo, che va dalla simbolica separazione dell’immagine corporea antecedente alla malattia alla condizione di cronicità: è un’immagine che talvolta risulta essere danneggiata o modificata dall’affermarsi della malattia cronica. E questa condizione ha spesso un impatto sul corpo, sia in termini di aspetto sia di funzionalità. Ciò che ne consegue è allora un’importante trasformazione anche dello schema corporeo della persona stessa.

È quindi importante per il paziente saper riconosce re i limiti che talvolta la malattia impone e poter ridefinire, se necessario, alcuni aspetti della propria identità personale per evitare inutili ed estenuanti sfide contro se stessi, con l’unico obiettivo di rincorrere e ricalcare quell’immagine di sé che si aveva prima della diagnosi.

Tutto ciò comporta un nuovo modello d’integrità psico-fisica, in cui è necessario inserire non solo la diversa condizione del proprio corpo, ma anche la nuova dimensione psicologica che questo ha comportato, con evidenti conseguenze sulle dinamiche lavorative, relazionali, affettive e con notevoli ripercussioni sulla gestione dei legami con gli altri, amici e familiari. A tal proposito Trabucco nel 2003 scrive: “La persona umana […] quando è ammalata lo è nella sua totalità. Essa reagisce a qualunque modificazione del suo stato fisiologico di base. […] Qualsiasi evento morboso produce importanti reazioni emotive, psicologiche e sociali”.

Nonostante ogni malattia cronica abbia delle specifiche caratteristiche che la differenziano dalle altre, è possibile individuare un leitmotiv all’interno del quale si possono rintracciare le stesse implicazioni di tipo psicologico. In particolare emerge come il corpo sia, nelle sue diverse dimensioni, il maggiore elemento sul quale la malattia cronica agisce. Quella corporea è poi una dimensione importante dell’identità dell’essere umano: è infatti attraverso il corpo che le persone si relazionano con il proprio contesto sociale.

Diversi autori hanno evidenziato la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e dell’identità, che costituiscono aspetti centrali nell’esperienza di malattia (Kelly & Field, 1996). Le alterazioni delle funzioni corporee causate dalla malattia possono infatti comportare cambiamenti che interessano soprattutto queste due dimensioni. Tutto ciò conduce a una ridefinizione di sé, che è foriera di un profondo cambiamento nel modo di essere e di percepire sé stessi.

Siegel e Lekas (2002) rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti dei veri e propri cambiamenti, cercando di integrare la malattia nella propria vita e percezione di sé nel lungo periodo. Ne conseguono dei veri e propri cambiamenti in termini d’identità personale: cambiamenti che vanno nella direzione della normalizzazione delle proprie caratteristiche personali a dispetto delle trasformazioni causate dalla malattia (Borsari et. al., 2015).

La cronicità è talvolta associata a cambiamenti che possono interessare l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione, con il conseguente aumento dello stress, che può tradursi in veri e propri disturbi di tipo psicologico. La ragion d’essere di tali disturbi si àncora nei cambiamenti che si verificano nella vita quotidiana del paziente e che incidono in modo negativo sulla sua qualità, sul benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro o la necessità di cambiare attività, oppure il cambiamento del proprio ruolo sociale quale diretta conseguenza della malattia cronica che, in alcuni casi, impone al paziente un coatto confronto con la perdita o la riduzione della propria autonomia.

Tutto questo processo comporta evidenti ripercussioni sull’autostima, ma anche sul sistema familiare del paziente, che necessariamente deve trovare nuovi equilibri non sempre facili da raggiungere. L’individuo deve infatti scontrarsi con una malattia che permane nonostante le terapie atte a contenerla. Accade spesso che patologie anche molto diverse tra loro, a causa della loro imprevedibilità, pongano i pazienti di fronte alla difficoltà della gestione dei sintomi che queste comportano. Tutto ciò può avere un impatto profondo su quella che lo psicologo Bandura definì come “autoefficacia”, e cioè la consapevolezza di essere capaci di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale (Bandura, 2000).

Si tratta di quell’abilità che ciascuno di noi percepisce nel poter mettere in atto un particolare comportamento o di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di un’azione specifica (Maddux & Gosselin, 2003). Se si cala tutto ciò nella dimensione della malattia, ci si rende conto di quanto sia ancora più gravoso per il malato. Diventa allora fondamentale per il paziente accettare questo nuovo stato di salute per dare un senso a quello che sta accadendo: non è un percorso semplice, ma possibile, durante il quale imparare a valutare realisticamente cosa si può fare e cosa no, e a farlo in modo nuovo e diverso da prima. In questo percorso fatto di adattamenti e riadattamenti può accadere che il paziente cronico sperimenti vissuti quali tristezza, rabbia o solitudine.

È importante, sotto il profilo psicologico, che la persona li possa riconoscere ed elabori tutto ciò che prova, i suoi stati emotivi, siano essi di rabbia, tristezza, paura o altro ancora. È doveroso sottolineare in questa sede che si tratta di reazioni normali di cui è però fondamentale occuparsi affinché possano essere parte di una dimensione transitoria per il paziente, senza che si strutturino come stati affettivi duraturi. Il paziente non è però il solo che deve fare spazio alla sua condizione di cronicità, ma anche il suo nucleo familiare e lo stesso contesto sociale all’interno del quale egli vive, i quali devono confrontarsi con la sua dimensione della malattia, coi disagi e/o con i cambiamenti che questa comporta o potrebbe comportare.

Buona lettura

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo: psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli.

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico.

Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme

(F. De André, 1981)

Un cammino che spesso inizia in salita

Da quando ho intrapreso la mia professione di psicologa e psicoterapeuta ho capito ancor di più che le parole sono importanti, ma soprattutto lo è l’uso che ne facciamo. Se andassimo a consultare il vocabolario alla voce “cronico” vedremmo che questo termine deriva dal greco chronĭcus, derivazione χρονικός, “tempo”. Se calassimo questa parola all’interno della dimensione della patologia scopriremmo che per il paziente soggetto a cronicità il fattore tempo si lega alla sua condizione di salute: il paziente, giorno dopo giorno, si trova a combattere con un corpo o una parte di esso che ha smesso di essere suo “alleato”, rendendo più difficile e complesso il cammino della vita, più di quanto non lo fosse prima. Proseguendo nella lettura, lo stesso dizionario illustra che in medicina, e nel linguaggio comune, ci si riferisce alla cronicità come a una condizione di malattia a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione.

Le malattie croniche sono patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e per le quali le terapie non sono quasi mai risolutive. L’incidenza di queste patologie, che possono essere di origini diverse, è molto alta: rappresentano circa l’80% del carico di malattia dei sistemi sanitari nazionali europei. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo i dati riportati dall’Istituto superiore di sanità al 5 gennaio 2022, le malattie croniche (o non trasmissibili) interessano in Italia circa 24 milioni di persone. Tali situazioni hanno un impatto importante sulla qualità e sull’attesa di vita della popolazione, perché queste malattie interessano tutte le fasi della vita, anche se i segmenti di popolazione più frequentemente colpiti sono gli anziani: soffre infatti di malattie croniche più dell’85% delle persone che hanno superato i 75 anni di età, ed in particolare le donne dopo i 55 anni. La lotta alla condizione di malato cronico rappresenta, senza dubbio, una sfida complessa ma, al contempo, prioritaria e ad ampio raggio, che parte dall’incremento e dal miglioramento delle conoscenze relative a tutti quei meccanismi e a quei fattori di rischio che portano allo sviluppo della condizione di cronicità e alle possibili strategie e programmi di prevenzione e di trattamento.

È una vera e propria sfida che coinvolge diversi livelli di intervento. Tali livelli si ancorano o dovrebbero ancorarsi a modelli organizzativi basati su un approccio organizzato e integrato, ed essere orientati tanto ad una maggiore efficienza quanto al miglioramento della qualità e dell’assistenza dei malati cronici. Tutto ciò è stato ribadito anche all’interno del recente articolo pubblicato su “Nature” (Whitty & Watt, 2020), in cui si sottolinea quanto sia importante, all’interno dei contesti di cura, superare la tendenza a trattare le diverse comorbilità come “compartimenti stagni” e superare così la tendenza ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialisti, senza che questi abbiano la possibilità di poter lavorare in sinergia gli uni con gli altri. Perseguire questo sentiero è importante anche, e soprattutto, per giungere all’individuazione di una diagnosi corretta.

Al di là della sua specificità, infatti, diagnosticare una malattia cronica può non coincidere con l’insorgenza della malattia stessa. Ci sono pazienti la cui sintomatologia consente di giungere a una diagnosi tempestiva; per altri invece la patologia risulta complessa da individuare perché dalle indagini strumentali il paziente appare sano pur non essendolo.

Sono i così detti pazienti invisibili, che non ricevono sufficienti attenzioni dalla ricerca, perché le loro malattie non rientrano nei LEA: si tratta delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento, di una quota di partecipazione (il ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso le tasse. Ciò significa che per queste categorie di pazienti non sono previste tutte quelle prestazioni o quei servizi che di norma sono forniti dal Servizio sanitario nazionale. Questo genera, sia per i singoli pazienti sia le loro famiglie, un pesante impatto di natura economica, capace di mettere a dura prova il “sistema famiglia”.

Dunque queste persone si assumono l’onere di sopportare, oltre alla sofferenza fisica, anche il disagio psicologico che deriva dal non sentirsi compresi, visti o ascoltati nella propria sofferenza e nel proprio disagio, sia dal contesto sociale in cui sono inseriti che dallo stesso Sistema sanitario nazionale.

Riporto di seguito alcuni stralci dei colloqui con i pazienti:

Una malattia che esiste solo se è visibile ci porta inadeguatezza, disagio, paura”.

Nessuno, oltre a te stesso può vedere, capire o provare cosa ti succede quando si scatena”.

Nessuno mi crede e difficilmente comprende la fatica che comporta anche il più

piccolo gesto”.

Spesso lo stato di salute di questi pazienti viene assimilato alle così dette functional somatic sydromes: sono le sindromi somatiche funzionali descritte per la prima volta da S. Wessely e attualmente definite come Medically Unexplained Symptoms (MUS) o “Sintomi clinicamente inspiegabili”. Sebbene i sintomi inspiegabili dal punto di vista medico rappresentino un fenomeno comune, l’esatta struttura latente dei sintomi somatici rimane in gran parte poco chiara (Edwards, et. al 2016; Witthöft et al., 2013).

È questa la dimensione in cui diagnosi e terapia diventano un percorso tortuoso, perché la sintomatologia spesso non trova una corretta classificazione diagnostica. La ragion d’essere di tale difficoltà potrebbe essere rintracciata nel fatto che malattie, seppur simili, hanno sviluppi e decorsi completamente diversi. Tale condizione mette a dura prova anche il rapporto paziente-medico. Il primo può perdere fiducia nelle capacità diagnostiche del medico e rivolgersi a numerosi altri professionisti. Il medico, invece, proprio in ragione di tali difficoltà, potrebbe richiedere altri accertamenti clinici, che comporta per il paziente intraprendere un percorso travagliato e costellato da diagnosi multiple.

Nell’affannosa ricerca di questo “nemico invisibile”, spesso viene consigliato ai pazienti di andare dallo psicoterapeuta, quale estremo tentativo di trovare una soluzione a un malessere, a una condizione di sofferenza apparentemente inspiegabile e senza nome. Quando questo accade, alla sofferenza viene generalmente riconosciuta esclusivamente la “paternità” della psicosomatica e della matrice di natura psicologica del disturbo organico. Di certo i fattori psicologici sono importanti nella patogenesi di tutte le malattie croniche in cui la componente psicosomatica diventa un terreno comune, un anello di congiunzione tra medicina e psicologia clinica di cui quel disturbo rappresenta l’esito di un processo di somatizzazione, un fenomeno che conduce all’espressione organica di un’emozione o di un conflitto psicologico. Credo però che sia per certi versi controproducente definire unicamente come psicosomatico ciò che, per svariate ragioni, non si riesce a comprendere nella sua complessità, perché questo aggiunge disagio a disagio. Confrontarsi con la cronicità significa allora saper cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità; una complessità che contempla anche gli aspetti psicologici e che vede “soma” e “psiche” non come entità separate ma legate nella loro unicità. Nell’individuo, infatti, i processi psichici consci e quelli inconsci non sono separati dagli eventi fisiologici (Frigoli, Masaraki, Morelli, 1980).

A domani, per altri due capitoli:

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Il sistema famiglia

Buona lettura

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.