Quelle perdite che ti fortificano

Per quelli di noi che hanno a che fare con il dolore cronico, tutto il giorno, tutta la vita, fa parte della/e malattie che ti hanno diagnosticato, siano esse visibili o non visibili. Con una, due e forse più malattie croniche, perdi molto, tanto. Le prime cose che perdi sono di tipo personale; lentamente il tempo passa inesorabile e ti rendi conto che il tuo corpo non è quello che conoscevi una volta. In effetti, in un certo senso piangi quella perdita, piangi il corpo che non c’è più. Piangi per non poter fare quello che facevi prima, ti senti come si ti mancasse una parte di te. Questo è il primo colpo, la prima vera e grande perdita.

Poi arriva la perdita della tua credibilità. Per quanto le persone intorno a te sappiano che ti è stata diagnosticata una malattia cronica, e/o anche più di una, resta il fatto che all’esterno tu sembri normale. Quei giorni in cui sei così stanco e dolorante, non li vede nessuno, li senti solo tu. Anche quando lavarsi i denti richiede tutta la tua forza o quando sei così confusa con quella maledetta “fibro fog” che sembra non nulla abbia senso, eppure tu sei “dentro” una nuvola che ti confonde, ti disorienta, mentre tu vivi questa brutta esperienza, gli altri pensano che tu stai esagerando e ti invitano a fare qualcosa, a reagire.

Poi c’è la tua vita sociale. Man mano che impari ad affrontare il tuo nuovo “stato” di vita con i tuoi dolori che non passeranno mai, rifiutare o accettare diventa il tuo nuovo stile di vita. Gli occhi degli amici sono sempre su di te e pensano di te le cose più fastidiose: sei diventata maleducata perché rifiuti ancora una volta un loro invito a cena, al cinema, al matrimonio dell’amico, ti isoli, non balli, stai sempre seduta e non vedi l’ora che tutto finisca. Sei un peso, sei persino odiosa, per qualcuno. La delusione più grande per te e che nessuno dei tuoi amici, pensa che stai facendo uno sforzo nell’accettare l’invito a quel matrimonio, che ti stai sforzando di tenere i tuoi piedi in scarpe nuove e non comode per te ma che tu hai dovuto indossare per l’occasione e che tutto questo lo “sconterai” domani e forse anche per tanti giorni dopo. Tu stai dando il massimo di te e non hai neppure la comprensione da un amico, è deludente.

Non sanno, quelli che non hanno malattie croniche come le nostre che, stiamo facendo un grande sforzo per apparire “normali”, non lo sanno.

Cosa c’è di più da perdere? Bene, te stessa, noi stessi. Credo che non si possa affrontare la vita portando la cartella clinica sotto il braccio in modo che le persone riconoscano la tua malattia. Inoltre, non puoi continuare a cercare di apparire normale spingendoti al massimo dei tuoi limiti al lavoro, a casa o in società. Credimi, cercare di apparire normale è mentalmente estenuante, fisicamente impossibile e, francamente, non è un modo di vivere. Accetta questa nuova te, nel bene e nel male.

Accettiamoci. Accettatevi.

Le malattie croniche sono una costante battaglia quotidiana e doverti spiegare, nasconderti e fingere, ti mangerà, ti divorerà. Allora mi sono detta e vi dico: conta quello che hai perso e conta quello che hai vinto. Tu ed io siamo qui! Noi stiamo combattendo! Personalmente, sulla mia strada ho perso molte cose, e va bene perché questa “nuova persona” che sono diventata, è più forte di quella vecchia me .Combatto contro il dolore e la stanchezza ogni giorno. Alcuni giorni vinco, altri giorni perdo, ma va bene perché ho accettato che la mia malattia che non se ne andrà, ma nemmeno io.

Provate a fermarvi.

Rosaria Mastronardo

159 giorni di attesa. Inaccettabile.

nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali” Don Milani

Una mia lettera al Presidente della Regione Toscana e all’assessore alla Sanità Toscana

Buongiorno,

mi chiamo Rosaria Mastronardo, vivo a Firenze. Sono una donna, una mamma, una lavoratrice e volontaria, nonostante le mie precarie condizioni di salute.

Sì, perché sono affetta da: Artrite Psoriasica Sieronegativa, Fibromialgia, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteoartrite di 4° livello alle caviglie, che ha danneggiato gradualmente cartilagine e tessuti circostanti, tanto da non riuscire più a camminare che per pochi brevi tratti; in più affetta da Neurolisi (già operata una volta), da Spasmofilia e da una leggera Psoriasi. Infine, si fa per dire, sono in lista di attesa per un intervento “complesso” alla spalla sinistra, compromessa da Artrosi, problemi del sovraspinato e da una formazione di tipo cistico, plurisettata e pluriconcamerata che deforma il muscolo stesso e non mi permette di sollevare il braccio.

Vi scrivo per manifestarvi tutta la mia rabbia, la mia incredulità, il mio disappunto, la mia delusione, il mio dispiacere, il mio rammarico e rincrescimento per la questione che illustrerò, che mi riguarda personalmente, ma che deduco, dai fatti che racconterò, possa riguardare tanti cittadini nelle mie stesse condizioni.

Per la mia condizione di disabile cronica ho fatto richiesta nel 2021 del contrassegno del parcheggio per disabili.

La prima volta, nel 2020, dopo una prima visita presso il distretto sanitario dell’Azienda Usl Toscana Centro, in via Lungarno Santa Rosa a Firenze, presso l’ambulatorio della medicina legale, la dottoressa ritenne opportuno rilasciarmi solo per 1 anno il contrassegno, che ritirai presso la sede del Parterre, sempre a Firenze. Dopo un anno la mia condizione è peggiorata, tant’è che, dopo essere ritornata nella stessa struttura e con la stessa dottoressa, quest’ultima firmò un documento per il secondo contrassegno con validità triennale.

Come mio solito, avendo tante scadenze, tra visite mediche, esami ematici e diagnostici, ancora di più attualmente poiché seguo una terapia biologica, pensai fosse utile occuparmi del contrassegno ben prima della scadenza, anzi, MOLTO PRIMA DELLA DATA DI SCADENZA indicata sul secondo contrassegno, numero 061520 con scadenza 19 marzo 2023: chiamo il numero unico di prenotazione del CUP metropolitano e chiedo l’appuntamento per il rinnovo del contrassegno. La chiamata al CUP viene fatta il giorno 21 novembre 2022, AVETE LETTO BENE, 21 novembre del 2022. L’operatrice che prese la mia chiamata, dispiaciuta, quasi non voleva dirmelo, mi comunicò che il primo appuntamento libero per la “TERZA” visita presso il distretto sanitario alla medicina legale era per il giorno 29 aprile del 2023 (159 giorni dopo); quando le feci presente che sul contrassegno la data di scadenza era il 19 marzo 2023 e che la sottoscritta per ben 41 giorni doveva sospenderne l’utilizzo, dispiaciuta, mi rispose che non poteva fare altro; mi suggerì di richiamare il CUP per verificare altre disponibilità liberatesi per disdette e/o altro, cosa che ho ripetutamente fatto senza successo, rimanendo pertanto con la mia data originale di appuntamento: 29 aprile 2023

Io vi chiedo se questa incresciosa deplorevole, deprecabile, fastidiosa, seccante e sgradevole, situazione, si possa accettare.

Aspettare 159 giorni per una visita legale che mi serve per avere un contrassegno di parcheggio per disabili nelle mie condizioni? NON E’ ACCETTABILE. Ho cercato di capire, chiamando il numero verde 800339891 (numero di Firenze per Permessi ZTL Invalidi e Posto Personalizzato), cosa poter fare per avere una sorta di “copertura” per quei 41 giorni che mi separavano dalla visita medica; sono stati gentilissimi, erano al corrente di questi ritardi, ma la risposta è comunque stata che non potevano far nulla, perché questa struttura è tenuta al rilascio dei contrassegni solo dopo una visita alla medicina legale. Sono venuta a conoscenza, successivamente, che questo enorme ritardo nell’evasione degli appuntamenti, a carico della medicina legale, era dovuto al fatto che a Firenze, vi era solo 1 (UNO) medico che si occupava, presso il distretto di Lungarno Santa Rosa, di fare gli accertamenti in ambulatorio monocratico, e che anche andando fuori dalla città di Firenze, la situazione non cambiava più di tanto.

Tutti sapevano, tutti erano al corrente di questa situazione, ma NESSUNO ha provveduto a porvi rimedio.

Ora, per carità, non “attaccatevi” alla solita giustificazione del Covid, no, vi prego, non offendete la mia intelligenza. Durante la pandemia, tutti a dire le stesse cose: dobbiamo cambiare, più medici, più infermieri, più fondi alla ricerca, più di tutto nella Sanità. TUTTO DISATTESO, anzi è TUTTO peggiorato, si sta peggio oggi che durante il periodo pandemico.

Forse aveva ragione don Milani che diceva: “nulla è più ingiusto che far parti uguali tra disuguali

Spiegatemi, cortesemente perché una donna affetta da una serie di malattie croniche CERTIFICATE debba essere sottoposta a questa via crucis burocratica periodicamente? Si pensa forse che io guarisca? Che io migliori nel tempo?

Qualcuno ancora crede che dalle malattie croniche e degenerative si possa guarire? Io sono una malata cronica e cronica rimango perché non c’è nulla che faccia guarire dalle malattie croniche, altrimenti verrebbero chiamate in altro modo.

In attesa di una vostra cortese risposta, saluto.

Rosaria Mastronardo

Gli antidepressivi usati contro il dolore cronico funzionano? Dipende…

Uno studio sul Bmj (https://www.bmj.com/) fa chiarezza sull’uso degli antidepressivi nel trattamento del dolore cronico. Invitando a prescrivere il farmaco giusto al paziente giusto. Perché l’efficacia della terapia dipende dal tipo di farmaco e dal tipo di dolore

Il boom di vendite di antidepressivi in molti Paesi del mondo registrato negli ultimi anni (nei Paesi dell’Ocse il consumo di questa categoria di psicofarmaci è raddoppiato tra il 2000 e il 2015) non indica necessariamente un aumento equivalente dei casi di depressione.

Il disturbo dell’umore resta, ovviamente, la principale ragione per cui si ricorrere a un antidepressivo, ma non è l’unica. Sta infatti aumentando notevolmente l’utilizzo degli psicofarmaci per il trattamento del dolore cronico. Gli antidepressivi vengono prescritti per calmare le sofferenze causate da malattie reumatiche, emicrania, mal di schiena, fibromialgia, sindrome dell’intestino irritabile e altri dolori difficili da gestire con i farmaci analgesici. È vero che spesso il dolore cronico è associato alla depressione, ma gli antidepressivi vengono prescritti anche in assenza di disturbi mentali o dell’umore, solo ed esclusivamente a scopo antalgico. La maggior parte delle prescrizioni avviene “off label”. Le eccezioni sono poche: c’è la duloxetine, che in Australia è approvata per il dolore neuropatico diabetico, o l’amitriptilina approvata nel Regno Unito per il dolore neuropatico, la cefalea tensiva e l’emicrania. Ma questa strategia, che sia “on” oppure “off-label”, è sicura? È efficace?

La risposta si trova nell’indagine appena pubblicata sul British Medical Journal secondo la quale la prescrizione degli antidepressivi nella terapia del dolore cronico dovrebbe avvenire cercando di dare il farmaco giusto al paziente giusto. Perché non tutti gli psicofarmaci funzionano per ogni condizione. I ricercatori dell’Università di Sidney che hanno realizzato lo studio, per esempio, criticano le linee guida redatte nel 2021 dal National Institute for Health and Care Excellence (NICE) britannico che raccomandano indiscriminatamente diversi tipi di antidepressivi per gli adulti che vivono con dolore cronico. L’elenco comprende l’amitriptilina, il citalopram, la duloxetina, la fluoxetina, la paroxetina o la sertralina.

«Raccomandare un elenco di antidepressivi senza un’attenta considerazione delle prove per ciascun farmaco in rapporto alle diverse condizioni di dolore può indurre erroneamente medici e pazienti a pensare che tutti gli antidepressivi abbiano la stessa efficacia per tutte le condizioni di dolore. Abbiamo dimostrato che non è così», ha dichiarato Giovanni Ferreira autore principale dello studio.

Per fare i dovuti distinguo, i ricercatori hanno condotto una revisione sistematica di studi condotti tra il 2012 e il 2022 che avevano coinvolto in tutto 25mila partecipanti testando 8 classi di antidepressivi e 22 tipi di dolore cronico (mal di schiena, fibromialgia, mal di testa, dolore postoperatorio e sindrome dell’intestino irritabile).

Dall’analisi dei risultati è emerso che alcuni antidepressivi sono effettivamente efficaci nella gestione del dolore. Gli inibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina (SNRI) come la duloxetina hanno mostrato un potere analgesico per un gran numero di condizioni, come mal di schiena, artrosi del ginocchio, dolore postoperatorio, fibromialgia e dolore neuropatico (dolore ai nervi).

Al contrario, gli antidepressivi triciclici, come l’amitriptilina, che sono gli antidepressivi più usati per il trattamento del dolore nella pratica clinica, non hanno dato chiare evidenze di una loro efficacia.

«Questa revisione, per la prima volta, riunisce tutte le prove esistenti sull’efficacia degli antidepressivi nel trattamento del dolore cronico in un documento completo», ha commentato Ferreira.

Gli scienziati hanno inserito alla fine del loro studio una nota con un invito alla prudenza: «Gli antidepressivi sono medicinali soggetti a prescrizione medica. Non usare antidepressivi se non sotto consiglio medico. È molto importante non interrompere bruscamente il trattamento per evitare effetti di astinenza che possono essere angoscianti e talvolta presentarsi come gravi problemi di salute. Questi effetti di astinenza includono vertigini, nausea, ansia, agitazione, tremore, sudorazione, confusione e disturbi del sonno», avvertono i ricercatori.

Questo articolo è stato scritto il 6 Febbraio 2023

Post Covid: fibromialgia per una donna su quattro.

Articolo apparso su : https://www.healthdesk.it/ il 10 marzo 2023, ore 18:20.

Dopo un ricovero per infezione da SARS-CoV-2, il 15% dei pazienti sviluppa fibromialgia, percentuale che sale al 26% nel sesso femminile.

È quanto risulta dai dati raccolti da ricercatori dello Sheba Medical Center in Israele e pubblicati di recente su PLOS One analizzando circa 200 pazienti ricoverati per Covid-19 nel 2020: l’87% ha avuto almeno un sintomo correlato alla fibromialgia dopo essere guarito dall’infezione, il 15% ha sviluppato la sindrome nei cinque mesi successivi. Fra le donne l’incidenza è stata del 26%, sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale; i sintomi più comuni, presenti ciascuno in oltre un caso su due, sono stanchezza, disturbi del sonno e dolori muscolari e articolari.

Se ne è parlato in occasione del Corso sul dolore acuto e cronico, dalla ricerca alla clinica organizzato dall’Istituto tumori Pascale di Napoli dal 9 all’11 marzo.

Anche in Italia l’incidenza della sindrome è in forte aumento nella popolazione generale e dopo la pandemia i casi di fibromialgia sono in continua crescita: oggi si stimano circa 2 milioni di casi.

«La fibromialgia è una sindrome “misteriosa” – spiega Arturo Cuomo, direttore della Struttura complessa di Anestesia, rianimazione e terapia antalgica del Pascale – di cui per lungo tempo è stata messa in dubbio perfino l’esistenza. Oggi è riconosciuta come patologia reumatica extra-articolare, ma resta un problema spesso diagnosticato con grande ritardo e qui al Pascale siamo fortemente impegnati a scongiurare che accada, evitando che i pazienti per mesi o anni si sottopongano a visite da diversi specialisti prima di dare un nome al proprio disturbo».

La fibromialgia giovanile colpisce il 2-6% di bambini e adolescenti, soprattutto femmine, e «in questi casi – sottolinea Marco Cascella, responsabile dell’HUB del dolore del Pascale – è ancora più essenziale intervenire per garantire una buona qualità di vita e per scongiurare conseguenze sul benessere psicologico: ricerche recenti hanno dimostrato alterazioni nelle aree cerebrali deputate all’elaborazione del dolore e nella corteccia frontale, in zone connesse alla regolazione ed elaborazione delle emozioni».

La cura della fibromialgia può includere anche miorilassanti e antidolorifici, ma i trattamenti sono per lo più non farmacologici e soprattutto personalizzati, con interventi sullo stile di vita, educativi e psicoterapeutici. Purtroppo, però, la fibromialgia non è inclusa nell’elenco delle patologie croniche e quindi nei Lea: «I pazienti non hanno diritto a esenzioni per visite, esami e terapie – osserva Cuomo – e questo complica non poco la gestione della sindrome, per la quale sarebbe importante creare percorsi adeguati così da ridurre i tempi per la diagnosi e garantire una presa in carico assistenziale adeguata in centri con esperienza nel campo».

La sottoscritta, aveva già pubblicato un articolo, lo trovate qui:

http://www.cittadinanzattivatoscana.it/?s=long+covid

dove, io e l’amica Tiziana Lazzari avevamo fatto emergere questo problema, si scriveva già a maggio del 2021 che : “Tutti i Paesi dell’UE sono colpiti da questo nuovo fenomeno”.

Speriamo si prendano provvedimenti al più presto, nel campo della ricerca per una soluzione scientifica valida, per evitare che il numero della percentuale aumenti a dismisura.

Prendersi cura

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione.

La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Oggi, gli ultimi due capitoli: “Prendersi cura” e “Metafore nutrienti

Prendersi cura

Sono diversi i contesti in cui ci si può occupare di tutte quelle dinamiche di tipo psicologico cui si è fatto cenno fino a ora. Tra questi vi è senza dubbio quello del sostegno psicologico o della psicoterapia, e cioè di un percorso ad hoc in cui il paziente (o il nucleo familiare) riesca non solo a occuparsi del proprio mondo emotivo ma anche a riappropriarsi, magari in modo differente, della propria esistenza. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, anche tutta una serie di disagi psicologici legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che può essere diverso da prima. Può capitare che la sofferenza per i cambiamenti legati alla malattia impedisca alla persona di sfruttare pienamente le proprie potenzialità che restano come imprigionate all’interno di un groviglio emotivo. Nella dimensione intersoggettiva che viene costantemente costruita e co-costruita, il paziente e lo psicologo s’incontrano e si alleano per percorrere insieme un tratto di strada più o meno lungo, dov’è possibile sperimentare un nuovo sguardo su ciò che accade (o è accaduto) e con esso dare anche nuovi significati. Lo psicologo può essere uno degli interlocutori, anche se non il solo, con cui è possibile condividere la sofferenza e il dolore che caratterizzano il rapporto con la dimensione cronica della malattia, oltre che essere colui che si occupa degli eventuali disturbi di natura psicologica, delle difficoltà di adattamento, delle crisi emotive sia che esse riguardino il paziente, i caregiver o i familiari.

È importante che nel tempo il paziente, all’interno di uno spazio a lui dedicato, possa comprendere e diventare cosciente che la malattia è una dimensione della propria realtà, è un aspetto della propria vita come lo sono molti altri, ed è con tutti gli ambiti che la caratterizzano, siano essi limiti o risorse, che questa vita sarà vissuta d’ora in avanti. Questa consapevolezza aiuta il paziente anche a dare una nuova dislocazione alle proprie risorse ed energie su diverse aree della propria esistenza: è un’occasione per ripensare alla propria vita, alle relazioni interpersonali, agli obblighi e, soprattutto, alle proprie priorità. La pratica clinica ha messo in evidenza come, per molti pazienti, il confronto con la cronicità abbia permesso loro di entrare in contatto con parti di sé che ignoravano (Giuntoli, 2013). Mi sembra importante condividere alcuni frammenti dei colloqui che ho tratto dalle sedute coi miei pazienti in psicoterapia:

«Ora sono diventato consapevole dei miei limiti, imparando a capire fin dove potermi spingere e come raggiungere un determinato obiettivo, aggirando l’ostacolo della malattia».

«Mi fa vivere l’oggi intensamente e i colori sono più netti».

«Sì, inizialmente mi aveva indebolita ora invece mi ha resa più forte. Non mi sono fatta sconfiggere dalla malattia ma ho preso la mia vita in mano facendo le cose che tutti i comuni mortali fanno senza togliermi nulla».

Questi fotogrammi di vita vissuta ci insegnano un’importante verità: benessere non significa assenza di malattia fisica e/o psicologica, bensì il perseguimento di obiettivi e scopi di vita, pur in una condizione di malattia, o di disagio. In tali condizioni le risorse psicologiche assumono un ruolo ancora più centrale per la promozione di un benessere che va oltre, e al di là, delle difficoltà o dei limiti.

Metafore nutrienti

La parola ‘limite’, o ciò che noi consideriamo essere tale, mi richiama alla mente la mia infanzia. Quando ero bambina vivevo a Ostuni, un piccolo paese della Puglia, dai più conosciuta come la “città bianca”. Erano gli anni 80 e di fronte alla mia casa si trovava un negozio di elettrodomestici a conduzione familiare. Non mi riferisco di certo alle grandi catene di distribuzione a cui l’incedere veloce della tecnologia ci ha abituati, ma a quei negozietti che c’erano una volta e che vendevano un po’ di tutto: dal cavo per la TV allo spremiagrumi. In quest’accozzaglia di cose c’erano anche le lampadine, quelle a incandescenza col filamento di tungsteno, e i miei genitori mi mandavano a comprarle. Di preciso non mi ricordo quanti anni avevo, forse sette o otto, ma ricordo bene due cose: la prima, è che arrivavo a malapena al bancone del negozio; la seconda, invece, non riguarda me, ma la signorina che c’era dietro quello stesso bancone e che, prima di vendermi la lampadina, la provava su una pila. Era una di quelle pile piatte e rettangolari con due alette metalliche nella parte superiore. È ormai da tempo che non me ne capita una tra le mani, pensavo che non fossero più in produzione, invece le producono ancora. Documentandomi ho scoperto che la pila in questione era da 4.5 volt.

Dunque, per provare se la lampadina fosse funzionante, la base veniva messa a contatto con le due alette metalliche della pila. Se la lampadina si accendeva veniva venduta, altrimenti era sostituita. Che una lampadina si accendesse a contatto con una pila, incantava allora i miei occhi di bambina. Negli anni però la magia di allora mi ha fatto riflettere. Come è fatta una pila? Una pila è composta da un polo positivo e da uno negativo. Ho poi scoperto che l’aletta metallica che corrisponde al polo negativo della pila è più lunga di quella che corrisponde al polo positivo. Se io decidessi di sostituire il polo negativo con quello positivo, la lampadina si accenderebbe oppure no? No, la lampadina non si accenderebbe. Perché la lampadina si accenda sono necessari il polo positivo e quello negativo: non ce n’è uno più importante dell’altro, entrambi hanno la stessa identica funzione, ovvero far sì che la lampadina si accenda. Quel compito che mi veniva affidato da bambina, e che mi faceva sentire grande, mi ha regalato oggi, che lo sono davvero, un’importante consapevolezza: i nostri limiti, i nostri disagi, le nostre difficoltà, i nostri poli negativi sono importanti tanto quanto quelli positivi, come le nostre risorse e i nostri punti di forza, perché entrambi fanno sì che la nostra ‘lampadina’ si possa accendere. Allora il mio invito è proprio questo: abbiate cura di tutto ciò che vive dentro di voi, sia esso positivo o negativo, solo così la vostra ‘lampadina’ si potrà accendere!

Dottoressa Ilaria Bagnulo

Essere felice dopo una diagnosi di fibromialgia, è possibile?

Una testimonianza di Tammy Freeman che scrive delle sue esperienze in una community dando voce alla popolazione di malati cronici.

Tre giorni fa sono andata da un nuovo specialista, un reumatologo. Ero preoccupata, poiché questo sarebbe stato il mio settimo specialista, ma volevo davvero capire cosa stesse causando la mia stanchezza e il mio dolore diffuso. Mi era già stata diagnosticata l’Hashimoto, e questo da sola poteva causare affaticamento e dolore ma non ha spiegato completamente perché, ad esempio, posso dormire per 15 ore e svegliarmi ancora stanca e per niente riposata. Perché ho un dolore quotidiano che mi distrae dalle mie attività quotidiane. Perché il mio corpo si sente solo pesante come un’ancora.

Quindi, sono entrata nervosamente nell’ambulatorio del reumatologo e, per fortuna, mi ha preso sul serio, anche quando ho fatto una battuta imbarazzante sull’essere una ipocondriaca. Ha fatto un esame fisico completo, ha rivisto il mio precedente esame del sangue, ha discusso la storia familiare, e poi abbiamo avuto una lunga conversazione su come mi sento, quali sono i miei sintomi, cosa sto già facendo per controllare quei sintomi, e così via. Ha trascorso molto tempo con me. E sulla base di tutti questi elementi, e escludendo alcuni altri come la malattia di Lyme e l’artrite, ha detto che è fibromialgia.

Che peccato, mi disse il reumatologo e non capii subito, poi ridacchiò un po, tornando serio, aggiunse: “Leggerai che non è una vera malattia, ma lo è. È una vera malattia e non è nella tua testa”.

La mia reazione? Sono scoppiata in lacrime e senza fermarmi gli ho confidato quanto mi mancasse la persona che ero prima, quella che si poteva alzare alle 6 del mattino e che si teneva occupata fino alle 23 e che era in grado di rifare tutto il giorno successivo. Gli ho confidato della mia pigrizia insorta negli ultimi quattro anni, cioè quando sono iniziati i miei problemi di salute e come la mia salute emotiva fosse stata influenzata, e come mi sentivo in colpa per quello che vivevo. Ha ascoltato con calma e mi ha detto che questi sentimenti spesso sono causa della fibromialgia e mi ha detto con fermezza che non sono affatto pigra. Ha detto anche che, dal nostro colloquio, da quanto raccontato in quel giorno, che io ero in grado, per la determinazione, di prendermi cura di me stessa.

Ho lasciato quell’ambulatorio sentendomi rinata. Certo, faceva piacere che tutto quanto mi stesse capitanando avesse un nome e non fosse frutto della mia pigrizia o ipocondria.

Anche giorni dopo, ho continuato a provare un sollievo assoluto. Ho un nome per la stanchezza travolgente e ho una ragione per cui i miei fianchi, la schiena, le spalle fanno costantemente male e ho quelle sensazioni di spilli e aghi nelle mie mani. Ancora non cambia nulla ma di certo non è nella mia testa, non è un riflesso di chi sono, non è un fallimento da parte mia, non è a causa di qualcosa che sto facendo male o non facendo bene. Non l’ho fatto a me stessa. Sono sollevata dal fatto che sebbene questa sia una malattia che dura tutta la vita, posso smettere di inseguire specialisti e nuovi esami del sangue e infinite ricerche su Google e posso smettere di cercare di capire tutto: Perché mi fa male la testa? Sono disidratata? È un mal di testa da stress? Mi fa male la schiena? Ho esagerato quando sono andato a fare la spesa e ho pulito la casa lo stesso giorno? Perché dormo così tanto? Sono depressa? non mi sento depressa, ma dormo mezza giornata, quindi forse ho bisogno di parlare con qualcuno. Perché la mia mano è di nuovo formicolante? Sto bene. Non è nella mia testa. C’è una ragione per tutto questo. Non può essere curato, ma può essere controllato, ma soprattutto, non è nella mia testa e posso smettere di cercare costantemente risposte. Ora, basta.

E sono grata per questo. Non fraintendetemi. Non lo augurerei a nessuno. Ma è un sollievo avere una ragione medica, scientifica, ufficiale per tutti questi sintomi.. Non è nella mia testa. Sto andanda avanti. Posso prendermi cura di me stessa, e questo è un enorme sollievo. Quindi oggi sono felice.

Devo andare avanti, andiamo avanti.

Al medico che ha ripristinato la mia fede nella medicina.

Una testimonianza di Peyton Izzie fibromialgiaca, che ha avuto la fortuna di incontrare un professionista che l’ha capita, compresa e sostenuta.

Chi è Peyton Izzie? Questa è una sua lettera ad un medico che la segue nella sua lunga lotta con la fibromialgia. Chi sa quante di noi, avrebbero voluto fare un gesto simile se avessimo incontrato un medico come quello di Peyton.

Peyton è una di noi che nel suo blog ha scritto:

Quando ho perso le forze, ho ritrovato la mia voce. Fibromialgia, disturbo da stress post-traumatico, cecità parziale e sordità… tanta sfortuna, ma ho continuato a lottare per un trattamento equo per le malattie invisibili. A parte quando dormo, mangio o scrivo, non sono mai più felice di quando ho una macchina fotografica in mano e qualcosa di bello davanti al mio obiettivo”.

Caro Dottore,

Ci sono così tante cose che vorrei poterti dire, ma in tutta onestà, abbiamo solo dieci minuti insieme e di solito il mio corpo mi sta deludendo in così tanti modi che è impossibile per me parlare di qualcosa di diverso da come la fibromialgia sta rovinando il mio corpo.

Vorrei poterti portare a prendere un caffè, te lo meriti e raccontarti della prima volta che ci siamo incontrati. Vorrei poterti raccontare delle lacrime che ho pianto quando mi hai creduto quando ti ho raccontato i miei sintomi. Ti parlerei delle dozzine di dottori che avevo visto prima di te, dei respingimenti, del disgusto, dell’incredulità e dei commenti maleducati. Eri la luce alla fine di un tunnel lungo, oscuro e doloroso, e io ero stata nell’oscurità per così tanto tempo che ero convinta di essere diventata cieca.

Ti direi che hai ripristinato la mia fiducia nella medicina. Che anche se sono stata delusa così tante volte prima e innumerevoli volte dopo averti incontrato – non mi ha fatto così male, perché sapevo che potevo venire da te, piangere con te e trovare i passi successivi . Mi hai tenuto per mano, hai sentito le mie grida e placato le mie paure, e per questo ti sarò eternamente grata. Perché so che, qualunque cosa venga dopo in questa battaglia senza fine , che con te al mio fianco, potrei uscirne viva.

Arriva il punto in cui ti viene ripetuto più e più volte che è tutto nella tua testa, che non c’è niente che non va fisicamente, che devi solo sforzarti di più ed esercitarti di più, mangiare di meno, metterti in forma, essere in salute. Arriva il punto in cui hai sentito tutto questo così tanto che inizi a pensare che stai diventando pazza. Questo dolore è reale? Sto in qualche modo immaginando tutti i miei sintomi? Sono solo pigra? Inizi a chiederti se qualcuno ti prenderà mai sul serio, troverà qualcosa che non va in te e lavorerà per aiutarti.

Ed è qui che entri in gioco tu. Perché in ogni fase del mio viaggio, sei stato lì per condividere il mio disgusto, la mia rabbia e la mia indignazione per ogni dottore che si è scrollato di dosso i miei sintomi. Sei stato lì per riprendere la mia lotta quando sono troppo esausta per alzare la testa. E tu mi hai sempre creduta. Anche quando sembra ridicolo o improbabile, mi hai sempre preso sul serio e hai creduto che i miei sintomi fossero reali e li hai trattati seriamente come qualsiasi altra malattia fisica.

E prima che le nostre tazze di caffè finiscano, ti chiederei della tua vita. Sei felice? Hai tutto ciò di cui hai bisogno? Sei trattato in modo equo al lavoro? Ti darei il mio tempo e ti ascolterei. Per tutto il tempo che mi hai dato. Essere un medico è una professione meravigliosa e altruista, ma ci sono persone reali dietro le lauree in medicina e ascoltare / vedere il dolore che le persone provano giorno dopo giorno. Può logorarti.

Ho già detto quanto sia ingrata la professione medica, e quindi tutto quello che posso dire di nuovo è, grazie, per tutto quello che fai per me e per i molti altri pazienti sotto le tue cure. Se tutti i dottori fornissero come te e se usassero lo stesso standard di cura e trattamento che usi per me, allora la fibromialgia non sarebbe mentalmente dannosa la metà di quanto lo sia adesso. Tutto quello che possiamo fare è sperare che un giorno altri dottori seguano il tuo fulgido esempio.

Grazie per quello che sei

Peyton Izzie

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica.

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo è il primo di oggi.

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Quando si giunge finalmente alla diagnosi, questa può paradossalmente generare un momentaneo sollievo, perché il paziente si sente finalmente legittimato agli occhi degli altri nella sua condizione di sofferenza e malattia. Quella consolazione temporanea cede però ben presto il posto ad un coacervo di emozioni. Scoprire di essere ammalato, e di esserlo quasi certamente per sempre, crea comprensibilmente uno shock, una sorta di lacerazione interna, che fa vacillare il senso di certezza che fino a quel momento aveva accompagnato il percorso di crescita personale.

Ogni individuo ha infatti un personale e soggettivo modo di elaborare la malattia che l’ha colpito. La perdita dello stato di salute è infatti paragonabile a un vero e proprio “lutto” e per certi versi sembra ricalcare le fasi della sua elaborazione. La diagnosi, dopo quel momentaneo sollievo, potrebbe comportare nel paziente il manifestarsi di profonde reazioni emotive; se all’inizio possono portare a dissimulare comportamenti più o meno congrui a quanto sta accadendo, successivamente ci può essere la messa in campo di forti meccanismi difensivi, come la negazione, la proiezione, la regressione ma anche la razionalizzazione.

Il “lutto” genera una sorta di frattura tra ciò che si era prima che insorgesse la malattia e ciò che si è dopo; si tratta di uno spartiacque temporale che impone al paziente un confronto rispetto al proprio passato, sia esso più o meno recente, e un presente fatto di cambiamenti, di nuovi adattamenti e riadattamenti. È un percorso in divenire in cui il paziente deve imparare ad accogliere nella sua quotidianità, oltre agli aspetti prettamente organici della sua malattia, anche tutta una serie di nuove variabili con cui deve imparare a confrontarsi. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, una serie di disagi psicologici, legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che potrebbe essere diverso da ciò che è stato fino a quel momento.

Si tratta di un processo complesso in cui può anche accadere che il paziente, immerso nell’affannosa ricerca della dimensione in cui collocare il proprio malessere, ponga maggiormente la propria attenzione alla componente fisica del proprio disagio, focalizzandosi esclusivamente su tutti quegli aspetti negativi che la malattia ha comportato ed in particolar modo, rapito dall’ansia anticipatoria, su tutti quei progetti o attività che la nuova condizione di salute potrebbe non permettergli più di svolgere.

Tutto ciò lasciando in secondo piano gli aspetti psicologici implicati nell’eziologia dei sintomi. È come se la sofferenza fisica avesse il sopravvento su quella psichica, rispetto alla quale il paziente ha spesso difficoltà a entrare in contatto. Tale condizione, se protratta nel tempo, può causare una frattura tra la dimensione somatica e psichica; una frattura di cui è importante occuparsi in maniera tempestiva. I sintomi possono mantenersi silenti o peggiorare con il tempo, creando talvolta anche disagio, imbarazzo e vergogna o reazioni psicopatologiche specifiche. Numerosi studi hanno evidenziato una maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore e un maggior numero di agiti anticonservativi nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto ai gruppi normativi (Nordenstrom, 2011, Chiesa et. al., 2013).

Le reazioni dipendono dalle caratteristiche personali del paziente, dall’insieme dei significati attribuiti alla malattia e, soprattutto, dalle condizioni di cura. L’impossibilità di dare senso, anche parziale o temporaneo, agli eventi, alle emozioni rappresenta una delle situazioni di massima sofferenza per l’essere umano. Tutto ciò può incidere negativamente sulla compliance alle cure.

Sono questi gli effetti collaterali della malattia cronica che, nel momento in cui fa irruzione nella vita di un individuo, ne altera e infrange gran parte dei precedenti equilibri, imponendo, accanto al depauperarsi della salute fisica, anche la messa in discussione dell’identità personale, la cui costruzione è un processo in continua evoluzione che dura per tutta la vita e permette, pur mantenendo un senso di sé stabile, di operare dei cambiamenti in relazione alle esperienze vissute nel corso della propria esistenza.

Le caratteristiche di continuità e pervasività di tale condizione comportano, infatti, l’innescarsi di un lungo e non facile processo, che va dalla simbolica separazione dell’immagine corporea antecedente alla malattia alla condizione di cronicità: è un’immagine che talvolta risulta essere danneggiata o modificata dall’affermarsi della malattia cronica. E questa condizione ha spesso un impatto sul corpo, sia in termini di aspetto sia di funzionalità. Ciò che ne consegue è allora un’importante trasformazione anche dello schema corporeo della persona stessa.

È quindi importante per il paziente saper riconosce re i limiti che talvolta la malattia impone e poter ridefinire, se necessario, alcuni aspetti della propria identità personale per evitare inutili ed estenuanti sfide contro se stessi, con l’unico obiettivo di rincorrere e ricalcare quell’immagine di sé che si aveva prima della diagnosi.

Tutto ciò comporta un nuovo modello d’integrità psico-fisica, in cui è necessario inserire non solo la diversa condizione del proprio corpo, ma anche la nuova dimensione psicologica che questo ha comportato, con evidenti conseguenze sulle dinamiche lavorative, relazionali, affettive e con notevoli ripercussioni sulla gestione dei legami con gli altri, amici e familiari. A tal proposito Trabucco nel 2003 scrive: “La persona umana […] quando è ammalata lo è nella sua totalità. Essa reagisce a qualunque modificazione del suo stato fisiologico di base. […] Qualsiasi evento morboso produce importanti reazioni emotive, psicologiche e sociali”.

Nonostante ogni malattia cronica abbia delle specifiche caratteristiche che la differenziano dalle altre, è possibile individuare un leitmotiv all’interno del quale si possono rintracciare le stesse implicazioni di tipo psicologico. In particolare emerge come il corpo sia, nelle sue diverse dimensioni, il maggiore elemento sul quale la malattia cronica agisce. Quella corporea è poi una dimensione importante dell’identità dell’essere umano: è infatti attraverso il corpo che le persone si relazionano con il proprio contesto sociale.

Diversi autori hanno evidenziato la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e dell’identità, che costituiscono aspetti centrali nell’esperienza di malattia (Kelly & Field, 1996). Le alterazioni delle funzioni corporee causate dalla malattia possono infatti comportare cambiamenti che interessano soprattutto queste due dimensioni. Tutto ciò conduce a una ridefinizione di sé, che è foriera di un profondo cambiamento nel modo di essere e di percepire sé stessi.

Siegel e Lekas (2002) rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti dei veri e propri cambiamenti, cercando di integrare la malattia nella propria vita e percezione di sé nel lungo periodo. Ne conseguono dei veri e propri cambiamenti in termini d’identità personale: cambiamenti che vanno nella direzione della normalizzazione delle proprie caratteristiche personali a dispetto delle trasformazioni causate dalla malattia (Borsari et. al., 2015).

La cronicità è talvolta associata a cambiamenti che possono interessare l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione, con il conseguente aumento dello stress, che può tradursi in veri e propri disturbi di tipo psicologico. La ragion d’essere di tali disturbi si àncora nei cambiamenti che si verificano nella vita quotidiana del paziente e che incidono in modo negativo sulla sua qualità, sul benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro o la necessità di cambiare attività, oppure il cambiamento del proprio ruolo sociale quale diretta conseguenza della malattia cronica che, in alcuni casi, impone al paziente un coatto confronto con la perdita o la riduzione della propria autonomia.

Tutto questo processo comporta evidenti ripercussioni sull’autostima, ma anche sul sistema familiare del paziente, che necessariamente deve trovare nuovi equilibri non sempre facili da raggiungere. L’individuo deve infatti scontrarsi con una malattia che permane nonostante le terapie atte a contenerla. Accade spesso che patologie anche molto diverse tra loro, a causa della loro imprevedibilità, pongano i pazienti di fronte alla difficoltà della gestione dei sintomi che queste comportano. Tutto ciò può avere un impatto profondo su quella che lo psicologo Bandura definì come “autoefficacia”, e cioè la consapevolezza di essere capaci di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale (Bandura, 2000).

Si tratta di quell’abilità che ciascuno di noi percepisce nel poter mettere in atto un particolare comportamento o di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di un’azione specifica (Maddux & Gosselin, 2003). Se si cala tutto ciò nella dimensione della malattia, ci si rende conto di quanto sia ancora più gravoso per il malato. Diventa allora fondamentale per il paziente accettare questo nuovo stato di salute per dare un senso a quello che sta accadendo: non è un percorso semplice, ma possibile, durante il quale imparare a valutare realisticamente cosa si può fare e cosa no, e a farlo in modo nuovo e diverso da prima. In questo percorso fatto di adattamenti e riadattamenti può accadere che il paziente cronico sperimenti vissuti quali tristezza, rabbia o solitudine.

È importante, sotto il profilo psicologico, che la persona li possa riconoscere ed elabori tutto ciò che prova, i suoi stati emotivi, siano essi di rabbia, tristezza, paura o altro ancora. È doveroso sottolineare in questa sede che si tratta di reazioni normali di cui è però fondamentale occuparsi affinché possano essere parte di una dimensione transitoria per il paziente, senza che si strutturino come stati affettivi duraturi. Il paziente non è però il solo che deve fare spazio alla sua condizione di cronicità, ma anche il suo nucleo familiare e lo stesso contesto sociale all’interno del quale egli vive, i quali devono confrontarsi con la sua dimensione della malattia, coi disagi e/o con i cambiamenti che questa comporta o potrebbe comportare.

Buona lettura

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.