Stanca di sentirmi dire: “Tu puoi farcela, e CE LA FARAI”

nun cia facc chiu

Mi soffermo a meditare spesso in questo periodo, a mollare tutto (visite, esami, controlli, post, lettere, denunce) perché troppo stanca, troppo esausta, sfinita e avvilita.

STANCA. Dal sistema sociale e sanitario ingarbugliato burocraticamente, complicato per noi malati cronici, medici ignoranti che continuano a far finta che non è reale quello che provi. Ignorata, offesa e oltraggiata, dal SSN e dalle associazioni, non tutte.

STANCA. Di RIPETERE LE STESSE COSE.

STANCA. Di farvi capire che non sono come voi “SANI”.

Ogni volta che discuto dei miei limiti fisici con gli altri, mi viene spesso ripetuta la stessa frase: “Tu puoi farcela, e CE LA FARAI”. Questa frase mi fa pensare tanto e mi sono chiesta cosa significa veramente per una persona sana, per una persona che non sa cosa siano le malattie croniche e soprattutto, cos’è il dolore cronico.

Sono una donna di 61 anni (tra poco) con diverse malattie croniche; in alcuni giorni, mi rendo conto che posso “tirare” di più i miei limiti, forse per un giorno, al secondo giorno, non ci arrivo. Può capitare di essere costretta a sforzarmi un po’ di più per qualche occasione speciale o per portare a termine un’attività necessaria. Ma quello sforzo “extra” di solito porta ad un disastroso “crash“. Dopo questo occasionale sforzo, io sono finita, mi sento come morta, senza vita; ripeto, sono occasionali gli sforzi, però dopo, io non sono nessuno, non esisto più.

È come guidare una macchina. In quell’auto, potete andare dove volete fino a quando il serbatoio ve lo permette. Quando nell’auto, non c’è più carburante, il viaggio è finito, non si va da nessuna parte. Di solito, se sto realmente in un auto e sto viaggiando, per evitare di fermarmi e non arrivare alla fine del mio viaggio, mi fermo per fare rifornimento giusto per sicurezza; e anche una volta che la mia auto mi segnala che sono in “rosso”, di solito rimane una certa quantità di benzina ancora per un po. Posso rischiare e continuare a guidare, ma alla fine la mia auto si fermerà completamente. Quando non c’è più carburante, la tua auto non va da nessuna parte, non importa quanti viaggi tu voglia fare, non importa quante cose stai immaginando di affrontare, l’auto si ferma, punto. Le persone con malattie croniche, soprattutto con dolore cronico, tendono a vivere la loro vita nello spazio tra il “quasi vuoto” e il “completamente senza carburante”. Alcune persone imparano i propri limiti abbastanza bene da fermarsi prima che si esauriscano completamente; altri cercano di “spingere” fino a quando si saranno completamente “esauriti”.

In quei giorni, in cui ho tirato troppo la corda, ho vissuto momenti bruttissimi, ho iniziato a piangere, l’idea di provare ad alzarmi dal letto la mattina per andare in bagno era travolgente. Ho avuto momenti in cui ero così stanca che fissavo il cibo nel piatto rendendomi conto che avevo ancora fame, ma riuscivo a malapena a sollevare la forchetta per continuare a mangiare. Ci sono giorni in cui non riesco nemmeno a sdraiarmi sul letto perché non ho l’energia per stare in piedi e crollo letteralmente. Mi sento come un blocco di ghiaccio che si scioglie sul marciapiede in una giornata calda. Non c’è volontà che tenga, non c’è sforzo che possa impedirmi di sciogliermi lentamente nel mio letto. Ho una terribile confusione in testa che rende difficile pensare anche alle più piccole cose. Perdo il filo dei miei pensieri a metà frase, o dimentico le parole e non ho l’energia per parlare. Mi è difficile leggere e concentrarmi sul testo, non ho l’energia mentale per elaborare le parole, e finisco per rileggere all’infinito lo stesso verso, le stesse frasi senza capirne il significato.

Questo “crash” può durare giorni o settimane, ma non so mai quanto durerà. Decidere di fare uno sforzo extra per me è un rischio costante, è come guidare una macchina senza freni. Dove andrò a sbattermi questa volta?.

Mi sono resa conto, che per i miei amici sani, tutti quelli che non sono in queste condizioni di cronicità, e ti ripetono: “Tu puoi farcela, e CE LA FARAI”, non capiranno mai le mie difficoltà, perché questi, anche se si sforzano e “tirano” al limite delle loro possibilità, staranno forse male ma, mai quanto me. Se continuano ad allenarsi anche quando tutti i loro muscoli faranno male e sono stanchi, alla fine arriveranno al punto che si sono prefissati e dopo, avranno anche più energia e allenarsi richiederà meno sforzo. Mi sono resa conto che non capiscono e non lo capiranno mai perché per loro c’è un un obiettivo finale che possono e raggiungeranno se si impegneranno molto.

Possono farcela perché ci sarà un punto in cui non dovranno più sforzarsi così tanto.

Ecco perché ho realizzato, ad un certo punto che, chi non vive una condizione di multi – cronicità, chi non vive con il dolore cronico, non può capire come ci si sente se “spingiamo” oltre

Questi più spingono , più ottengono risultati positivi, noi malati cronici più spingiamo, più siamo finiti.

Io, l’ho capito, perché loro non lo capisco? Quindi, per favore, ricordarti che io non non sono pigra o riluttante a fare uno sforzo per migliorare le mie condizioni, per forse stare meglio, io sono una realista. Potrei essere in grado di continuare a “spingermi” per un po’, ma alla fine crollerò.

Cosa dire a quella parte della classe medica che ti tratta con superficialità, con indifferenza e menefreghismo.? Cari dottori, se non avete empatia, se non avete cervello e cuore, cambiate lavoro, di terra da zappare in questo paese e non solo in questo, ce n’è molta.

Rosaria Mastronardo che, per scrivere questo testo, per la stanchezza, ho impiegato 3 ore, una volta mi bastavano 5 minuti.

Incertezza, insicurezza e dubbi che si sono insinuati in me, negli anni, dopo la diagnosi di fibromialgia.

Una cosa che mi sorprende continuamente quando si tratta di fibromialgia, è l’insicurezza. Sono facilitatrice di due gruppi di auto aiuto da diversi anni, e ho sempre sentito tutti coloro che partecipano ai gruppi che facilito, affermare che i tanti professionisti medici consultati lungo il percorso di diagnosi e “non cura”, ancora oggi, nonostante la letteratura immensa a disposizione, non credono che il nostro dolore sia reale. In alcuni casi nel racconto sento emergere che una parte, tutt’altro che irrisoria, di questi “luminari”, mette addirittura in dubbio l’esistenza della fibromialgia come vera e propria malattia fisica, ed afferma in maniera più o meno palese, che si tratti invece di un insieme di sintomi provocati da malattia psicosomatica, per cui psichiatrica. L’insicurezza, l’incredulità e la diffidenza non caratterizzano solo l’atteggiamento dei medici ma anche quello dei nostri amici e familiari, per non parlare poi del luogo di lavoro. E’ un continuo, è un tormentone che ci penalizza e ci abbatte, ci avvilisce ogni giorno.

Penso che l’insicurezza e l’incertezza da parte dei medici sia sicuramente “frutto” delle poliedriche teorie sull’origine della malattia, tanto che si sono sviluppate, nel tempo, decine di correnti di pensiero al riguardo, facendo sì che idee e preconcetti si moltiplicassero senza limiti nella confusione generale. È risaputo che non esiste ancora un test ematico che possa rilevare, tramite marcatore specifico, che ci si trovi inconfutabilmente in presenza di Fibromialgia, e nemmeno esiste un esame diagnostico che attesti che noi siamo affetti da questa malattia.

Il medico, spesso un reumatologo, ti rivolge qualche domanda sul dolore che provi, e tu racconti che lo senti martellante, sordo, a tratti insopportabile. Se l’uomo che ti sta davanti con il suo bel camice bianco ne ha voglia, allora si alza dalla scrivania, ti tocca in alcuni punti del corpo, e se toccandoli reagisci rientrando in “certi canoni”, emette la fatidica diagnosi: fibromialgia, punto. Punto? Sì, punto. Perché tutto finisce lì, nonostante in scienza e coscienza ed anche in base ad un tacito accordo, quasi un protocollo, prima di formulare detta diagnosi, l’uomo con il camice dovrebbe indagare per cercare di escludere tutte le altre malattie che possano avere identici sintomi, hai visto mai che si possa prendere in tempo una malattia diversa da quella del sacco contenitore, quello con il marchio Fibromialgia, dove finiscono tutti coloro che non avranno mai una cura. In pratica, i sintomi di malattia che tu riferisci di provare bastano a far scattare nello specialista il desiderio di fermarsi, per risparmiarsi le prescrizioni di altre indagini. Ciò che spinge il medico a refertare la diagnosi è la presenza di alcuni sintomi, fra quelli annoverati in un lunghissimo elenco, genericamente da associarsi, per convenzione, alla fibromialgia. Quindi è l’appartenenza di un sintomo a questo elenco a scatenare una diagnosi, quasi sempre molto affrettata, e non un esame di laboratorio.

Altra cosa sono i parenti, amici e datori di lavoro che mettono costantemente in dubbio il tuo provare dolore, il tuo stare male, la tua stanchezza cronica, la tua affaticabilità, la tua scarsa concentrazione. Ecco allora che nascono tutti gli epiteti più cattivi e ingiusti. Sei una fannullona, non hai voglia di fare nulla, sei depressa, vatti a fare una camminata, fatti una vacanza, trovati un buon compagno, e vedrai che ti passa, etc, etc.

Ci isoliamo, ma al tempo stesso siamo evitati, fino al punto di essere completamente emarginati, rischiamo di essere licenziati da un datore di lavoro che guarda la produzione e che se ne infischia della tua fatica quotidiana nel gestire tutta la devastazione del tuo corpo ad opera di una malattia subdola, che quando ti prende sei sua per sempre, avvolta nelle sue spire sempre più strette. Per noi la vita diventa l’inferno. E’ un cane che si morde la coda, non hai scampo. Soffri per il dolore che nessuno vede, e in più sei anche stigmatizzato.

Tutto questo l’ho vissuto in prima persona e l’ho rivissuto ascoltando nei gruppi di auto aiuto, le testimonianze di altre/i nelle mie stesse condizioni. Quelle testimonianze erano copie conformi della mia situazione di malattia e sofferenza, uguali identiche.

Qualcuno riesce ad uscire da questo impasse, altri no, ma come biasimare questi ultimi. Noi siamo esseri umani e non siamo tutti uguali, ogni soggetto reagisce in modo diverso agli stimoli esterni, fisici e patologici, e le cure vengono sopportate da ciascuno in modo tutt’altro che standardizzato. È il motivo per cui a contatto con una certa sostanza c’è chi va in anafilassi e chi la tollera tranquillamente. Dovrebbe essere normale saperlo, per un medico, ma non è sempre così. Probabilmente perché molti medici si sono talmente abituati ad avere nel cassetto della loro scrivania il manuale dei protocolli al posto del giuramento di Ippocrate, che si sono disabituati al ragionamento preferendo agire prevedendo una loro tutela giuridica in caso nascesse una controversia legale nei loro confronti a causa di un errore medico.

Tutto quello che ho descritto, immaginate, per me è iniziato nel 2015, anno della diagnosi di Fibromialgia.

Premetto che la “sentenza” mi venne fatta da un neurologo. Fui colpita, in quel momento orribile della mia vita, da forti parestesie alle gambe. Non avevo sensibilità dal bacino in giù, le mie gambe non erano più fatte di carne, ma dure come cemento, al punto che non camminavo più e mi trascinavo letteralmente. Dopo circa un anno passato in quel modo, il neurologo emise il fatidico verdetto: “Fibromialgia”. Nella vita di chi riceve questa diagnosi, esiste una “vita prima” e una “vita dopo” la diagnosi, completamente stravolta rispetto alla prima. Da quel momento ad oggi, i vari medici che ho consultato mi hanno prescritto e consigliato di tutto, ed anche l’esatto contrario di quel tutto. Consigliato e prescritto a seconda della teoria del momento. Hanno seguito alla lettera tutto ciò che i “famosi” protocolli indicavano per il trattamento del paziente con fibromialgia. Per cercare di mascherare o attenuare il dolore, non hanno prescritto altro che farmaci presi a prestito da altri protocolli di cura, e che servirebbero per trattare ben altro, visto che, come noto, non c’è cura, non c’è nulla che possa risolvere i sintomi della fibromialgia.

I farmaci che di prassi si prescrivono in quest’ambito, poiché non curano ma cercano solo di tenere a bada un sintomo senza risolverne la causa, non impediscono a quest’ultima di continuare imperterrita a manifestarsi tramite il dolore, ed il dosaggio del farmaco, creando assuefazione, dev’essere aumentato sempre più, fintanto che anziché essere efficace, crea solo danno e dev’essere sospeso. Si prova un altro farmaco, e l’epilogo è lo stesso di quello precedente. Se paragonassimo banalmente la malattia all’acqua che sgorga dal rubinetto senza poterne chiudere il flusso, e fingessimo che il tappo del lavandino fosse il farmaco, ci accorgeremmo che il tappo non potrà nulla se l’acqua continuerà a scorrere nel lavandino, che si riempirà fino a far fuoriuscire l’acqua che continuerà imperterrita a scorrere fino ad allagare prima la cucina (un organo), e poi la casa (l’intero corpo umano).

A dimostrazione dell’immenso danno che provoca una delle regole stabilite nel protocollo di diagnosi della fibromialgia, che impone al medico, dopo la diagnosi, di non prescrivere più alcun accertamento diagnostico, nel corso di questi anni, in via del tutto accidentale, mi sono state diagnosticate via via altre patologie, croniche ed autoimmuni. Farò l’elenco, attenzione però, non a scopo vittimistico, lo farò perché mi sono sorti dei dubbi, dubbi che si rafforzano anche con il sentire, conoscere storie come la mia tramite il racconto di altri malati che si sono trovati nelle mie stesse condizioni, cioè aver avuto la diagnosi, il marchio “fibromialgia”, ed aver trovato, da quel momento in poi, un muro di gomma di fronte ad ogni richiesta di aiuto, perennemente inascoltati, marchiati come pazienti con diagnosi di malattia incurabile o immaginaria. Mentre subivo tutto questo, covavo ben altre malattie dentro di me, che purtroppo si sono evidenziate quando ormai non potevano più essere ignorate nemmeno dal più stolto degli uomini con il camice bianco.

Ecco l’elenco, non in ordine di diagnosi medica:

Fibromialgia, Artrite Psoriasica, Psoriasi, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteocondrite di 4° livello alle caviglie , Spasmofilia, Artrosi mani e piedi.

Quali sono i dubbi che oggi mi assalgono?

Sono fibromialgica e tutte queste malattie sono correlate ad essa?

Non sono fibromialgica e quel giorno, il giorno in cui le mie gambe erano diventate di cemento e avevo perso la sensibilità, non erano altro che una sorte di “campanello di allarme” di tutto quello che poi è venuto dopo?

Come sapete tutti, non sono un medico, non ho studiato medicina, ma da malata mi pongo tante domande, ragiono tanto su tutti questi anni, 8 lunghissimi anni passati con dolori sempre più forti, anni in cui ho dovuto necessariamente gestire e sopportare incomprensioni, accrescere consapevolezza e coltivare pazienza, in mezzo a visite, esami e tanto tanto altro che non mi va di raccontare, ma che purtroppo ho vissuto. Sono giunta ad una conclusione e ripensando ad un proverbio che recita “E’ un gran medico chi conosce il suo male” ho maturato l’idea che la fibromialgia sia solo un campanello d’allarme, un’avvisaglia, e come tale sia la punta dell’iceberg di altre malattie.

E non essendo un medico, da anni parlo e scrivo solo per raccontare la mia esperienza personale, e quando nei gruppi che facilito, ascolto le storie di persone che soffrono come me, mi accorgo che in maniera simile a me, negli anni della loro vita di “fibromialgici” hanno sviluppato ben altre malattie, molte di esse di origine autoimmune.

Quindi ciò che mi domando sempre più insistentemente è: la Fibromialgia esiste come malattia a sé stante, oppure è una sindrome vera e propria, un insieme di sintomi che si manifestano in presenza di altre malattie che per comodo non vengono più ricercate, coperte dal mantello Fibromialgia, lasciando che esse stesse progrediscano fintanto che non esplodono nella loro gravità?

Sono dubbi legittimi, di una malata cronica che non ne può più di sopportare il male che non passa mai, e l’immobilismo, l’ignoranza, la mancanza di empatia e di ascolto.

Rosaria Mastronardo

Le mie scuse ai miei pazienti affetti da fibromialgia.

Le scuse di un medico che si è ammalata di fibromialgia

Questa è la storia di Amanda Shelly, assistente medico, mamma single che vive in Arizona. Amanda, ha compiuto 40 anni da poco e sta lavorando per trovare, in tutti i modi, ad affrontare la malattia cronica, la fibromialgia, per godersi ancora la vita.

Ho delle scuse da fare.

Vorrei scusarmi con tutti i pazienti che ho visto nei miei anni di lavoro in pronto soccorso che soffrivano di dolore cronico dovuto a fibromialgia o malattia autoimmune.

Vorrei scusarmi per non sapere, capire e in alcuni casi nemmeno credere a quello che stavi passando.

Vedi, nella scuola per assistenti medici, proprio come la scuola di medicina, non ci insegnano come queste malattie influiscono sulla vita dei nostri pazienti. Non ci dicono che è stato incredibilmente estenuante per il nostro paziente arrivare in ufficio o che probabilmente dovranno riposare e riprendersi i giorni successivi. Non ci dicono che stare seduti sulla sedia nella sala d’attesa fa male ad ogni parte del tuo corpo, non ci dicono che possono darvi dolore anche quello che indossate che siano essi vestiti o scarpe. Non ci insegnano come la tua famiglia sia influenzata dalla tua incapacità di partecipare alla vita sociale, dare cure e attenzioni al proprio coniuge o figli o persino preparare la cena.

Ma ora lo so. E mi dispiace.

Lo so perché da alcuni anni combatto con la fibromialgia e qualche altro problema autoimmune ancora da identificare. Lo so perché ho dovuto insegnare a mio figlio piccolo come abbracciare dolcemente. Lo so perché ho sentito i suoi amici commentare su quanto sono pigra, per il tanto tempo che passo a letto. Lo so perché non riesco più fisicamente a tenere il passo con i pazienti in ambulatorio, per fortuna ho potuto lavorare da casa grazie alla telemedicina. E lo so perché quella cara vecchia “nebbia fibrosa” spesso fa sembrare che il mio cervello si stia spegnendo, faccio fatica a ricordare le parole che volevo dire al paziente che sto cercando di aiutare.

All’inizio volevo nascondere la mia diagnosi ai miei colleghi. C’erano ancora così tanti colleghi là fuori che non credevano nemmeno che la fibromialgia fosse un vero disturbo (io ero uno di loro). Ma negli ultimi due anni di ininterrotte visite di specialisti, test con risposte bizzarre ma non chiare, prove di un farmaco dopo l’altro, ho imparato che anche se la comunità medica si sta aprendo alla realtà che questo è reale, “loro” , alcuni di loro, continuano a non capirlo.

Questo mi ha colpito di nuovo due giorni fa ad un appuntamento con un reumatologo che ha detto: “Non vedo nulla di preoccupante” quattro volte ha ripetuto la stessa frase, durante la nostra visita. Veramente? Non pensi che dover fare il mio lavoro dal mio letto in alcuni giorni sia preoccupante? Non pensi che l’isolamento causato dal non poter andare a fare e vedere cose con la mia famiglia sia preoccupante?

È giunto il momento che i medici smettano di guardare i risultati di laboratorio e inizino a guardare l’intero quadro. Anche se la scienza non ha scoperto una cura, solo un semplice riconoscimento di ciò che i pazienti stanno effettivamente attraversando sarebbe un enorme passo avanti verso il superamento del divario tra la tua realtà e la mia.

Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io.” (Luigi Pirandello)

Disattenzione

Un grande insegnamento

di Maria Wislawa Anna Szymborska, è stata una poetessa polacca nata a Kórnik, 2 luglio 1923, morta a Cracovia, il 1º febbraio 2012.

Fu premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996 e con numerosi altri riconoscimenti, è generalmente considerata la più importante poetessa polacca degli ultimi anni e una delle poetesse più amate dal pubblico di tutto il mondo. In Polonia i suoi libri hanno raggiunto cifre di vendita che rivaleggiano con quelle dei più notevoli autori di prosa, nonostante Szymborska abbia ironicamente osservato, nella poesia intitolata “Ad alcuni piace la poesia” , che la poesia piace a non più di due persone su mille.

Ieri mi sono comportata male nel cosmo.

Ho passato tutto il giorno senza fare domande,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,

come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze,

ma senza un pensiero che andasse più in là

dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle,

e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –

e da dove è saltato fuori uno così –

e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro

(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti

perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio.

Su un tavolo più giovane, da una mano d’un giorno più giovane,

il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia era come non mai,

poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,

ma già in uno spazio lasciato per sempre.

È durato 24 ore buone.

1440 minuti di occasioni.

86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,

benché taccia sul nostro conto,

tuttavia esige qualcosa da noi:

un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal

e una partecipazione stupita a questo gioco

con regole ignote.

In “Disattenzione” la poetessa parla di una “partecipazione stupita”; questa parola “stupita” ha un grande significato e racchiude l’essenza di questa donna. Lei era stupita dal mondo e dalla vita perché tutto è mutevole e al contempo singolare, lei era talvolta cinica e disincantata ma aveva il dono dello stupore ovvero di possedere uno sguardo in grado di meravigliarsi. Aveva capito, nonostante il contesto storico in cui ha vissuto che non le ha sicuramente reso la vita facile, che lo stupore ci serve a celebrare il qui ed ora. Ha appreso sulla sua pelle l’importanza di apprezzare le mille sfaccettature e di gioire perché la vita non concede sconti a nessuno.

Non c’è che dire, un grande insegnamento.