Sono più della mia malattia

Una testimonianza di: Dave Shields

Quando la fibromialgia interessa un uomo

Sono spesso perplesso dalla risposta di un individuo a una diagnosi di disturbo o di malattia. All’inizio degli anni ’90 ho avuto la fibromialgia. Sembrava che ci volesse un’eternità, ma alla fine mi è stata diagnosticata alla Mayo Clinic di MN.

Inizialmente, sono stato sopraffatto dalla gravità dei sintomi. Il dolore, la stanchezza, i problemi di sonno e la nebbia mentale erano travolgenti. Non potevo lavorare. Mi sedevo sulla sedia a dondolo in agonia, consumato dal dolore.

Mi sentivo impotente di fronte a un potente nemico. All’inizio, ho lottato con l’accettazione. Anche se avevo una diagnosi, mi vergognavo, dicendo cose del tipo: sono solo una persona debole e pigra… è tutto nella mia testa… basta scuotersela di dosso.

Questo disturbo ha cominciato a erodere la mia identità. Ha avuto un impatto sul mio carattere e ha rubato la mia autostima e fiducia. Ho iniziato a perdermi, nuotando nel mare di caos che deriva dalla stessa malattia. Non so quando sia successo, ma alla fine sono diventato Fibromialgico. Ho permesso alla fibromialgia di prendere il sopravvento su di me.

C’è un’enorme differenza tra l’essere Fibromialgico e qualcuno che soffre di un disturbo chiamato Fibromialgia. Ho permesso alla fibromialgia di prendere il sopravvento sulla mia vita, ma non me ne sono reso conto fino a quando, in questo processo, sono diventato depresso.

Sono andato sottoterra e sono rimasto così per anni.

Mi sono sentito una vittima

L’autocommiserazione si è stabilita nel mio cuore e nella mia mente, e ogni giorno mi dispiaceva per me stesso. Sono diventato totalmente debilitato e ho vissuto in una fossa buia.

La strada del ritorno è iniziata quando mi sono arrabbiato… quando mi sono ammalato e stancato di essere malato e stanco. La Fibromialgia mi aveva preso quasi tutto. Ero stufo. Ho permesso alla rabbia di alimentare le mie azioni. È iniziato con le piccole cose come una migliore igiene personale, vestirsi per la giornata, rifare il letto e impostare un programma di sonno. Fare queste cose apparentemente piccole ha fatto un’enorme differenza nella mia giornata.

Questi comportamenti hanno iniziato a darmi un senso di controllo personale. Mi sentivo come se avessi la capacità di influenzare la mia vita. Una volta ristabilite queste abitudini, volevo di più. Sono entrato in terapia e ho riscoperto chi ero al di fuori della mia diagnosi.

Con un rinnovato senso di sé, ho iniziato a implementare strategie per gestire la fibromialgia. Ho iniziato una pratica di meditazione per gestire il mio dolore. Ho iniziato a fare stretching, andare in bicicletta e camminare. Ho aggiunto il massaggio come risorsa. Ho iniziato a mangiare in modo più sano, ho comprato un diario e l’ho usato per annotarmi tutte le cose che mi accadevano, belle o brutte.

Ho iniziato a impegnarmi nuovamente socialmente e costruire la mia rete di supporto. Ho pensato e parlato di cose diverse dalla fibromialgia. Ho ripreso a lavorare. Oggi i miei sintomi di fibromialgia non sono diversi da quelli di 20 anni fa. Ciò che è diverso è la mia mentalità, il modo in cui mi avvicino al mio disturbo e le mie azioni quotidiane. So che non l’ho causato e che non posso necessariamente controllarlo, ma ho un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana. Ho accettato che la Fibromialgia sia il mio compagno di viaggio. Rispetto il grande impatto che ha sulla mia vita ogni giorno.

Ci sono giorni in cui i sintomi sono peggiori e, in quei giorni, correggo amorevolmente la mia giornata, invece di farmi del male come facevo una volta.

Vivo con la fibromialgia. Vivo una vita piena di potere e appagante nonostante ciò. Sono passato dal sopravvivere al prosperare. Puoi farlo anche tu!

Questa è la testimonianza di un uomo che si è confrotato con la Fibromialgia. Non è poi così diversa dall’esperinza che vive una donna con la stessa malattia. Ricordo infine che, non tutti sono in grado di reagire allo stesso modo e non a tutti la malattia si manifesta con la stessa intensità e con gli stessi sintomi.

Puoi farlo anche tu come scrive Dave, è possibile ma, se non hai solo la Fibromialgia, non è tutto poi coosì facile.

Incertezza, insicurezza e dubbi che si sono insinuati in me, negli anni, dopo la diagnosi di fibromialgia.

Una cosa che mi sorprende continuamente quando si tratta di fibromialgia, è l’insicurezza. Sono facilitatrice di due gruppi di auto aiuto da diversi anni, e ho sempre sentito tutti coloro che partecipano ai gruppi che facilito, affermare che i tanti professionisti medici consultati lungo il percorso di diagnosi e “non cura”, ancora oggi, nonostante la letteratura immensa a disposizione, non credono che il nostro dolore sia reale. In alcuni casi nel racconto sento emergere che una parte, tutt’altro che irrisoria, di questi “luminari”, mette addirittura in dubbio l’esistenza della fibromialgia come vera e propria malattia fisica, ed afferma in maniera più o meno palese, che si tratti invece di un insieme di sintomi provocati da malattia psicosomatica, per cui psichiatrica. L’insicurezza, l’incredulità e la diffidenza non caratterizzano solo l’atteggiamento dei medici ma anche quello dei nostri amici e familiari, per non parlare poi del luogo di lavoro. E’ un continuo, è un tormentone che ci penalizza e ci abbatte, ci avvilisce ogni giorno.

Penso che l’insicurezza e l’incertezza da parte dei medici sia sicuramente “frutto” delle poliedriche teorie sull’origine della malattia, tanto che si sono sviluppate, nel tempo, decine di correnti di pensiero al riguardo, facendo sì che idee e preconcetti si moltiplicassero senza limiti nella confusione generale. È risaputo che non esiste ancora un test ematico che possa rilevare, tramite marcatore specifico, che ci si trovi inconfutabilmente in presenza di Fibromialgia, e nemmeno esiste un esame diagnostico che attesti che noi siamo affetti da questa malattia.

Il medico, spesso un reumatologo, ti rivolge qualche domanda sul dolore che provi, e tu racconti che lo senti martellante, sordo, a tratti insopportabile. Se l’uomo che ti sta davanti con il suo bel camice bianco ne ha voglia, allora si alza dalla scrivania, ti tocca in alcuni punti del corpo, e se toccandoli reagisci rientrando in “certi canoni”, emette la fatidica diagnosi: fibromialgia, punto. Punto? Sì, punto. Perché tutto finisce lì, nonostante in scienza e coscienza ed anche in base ad un tacito accordo, quasi un protocollo, prima di formulare detta diagnosi, l’uomo con il camice dovrebbe indagare per cercare di escludere tutte le altre malattie che possano avere identici sintomi, hai visto mai che si possa prendere in tempo una malattia diversa da quella del sacco contenitore, quello con il marchio Fibromialgia, dove finiscono tutti coloro che non avranno mai una cura. In pratica, i sintomi di malattia che tu riferisci di provare bastano a far scattare nello specialista il desiderio di fermarsi, per risparmiarsi le prescrizioni di altre indagini. Ciò che spinge il medico a refertare la diagnosi è la presenza di alcuni sintomi, fra quelli annoverati in un lunghissimo elenco, genericamente da associarsi, per convenzione, alla fibromialgia. Quindi è l’appartenenza di un sintomo a questo elenco a scatenare una diagnosi, quasi sempre molto affrettata, e non un esame di laboratorio.

Altra cosa sono i parenti, amici e datori di lavoro che mettono costantemente in dubbio il tuo provare dolore, il tuo stare male, la tua stanchezza cronica, la tua affaticabilità, la tua scarsa concentrazione. Ecco allora che nascono tutti gli epiteti più cattivi e ingiusti. Sei una fannullona, non hai voglia di fare nulla, sei depressa, vatti a fare una camminata, fatti una vacanza, trovati un buon compagno, e vedrai che ti passa, etc, etc.

Ci isoliamo, ma al tempo stesso siamo evitati, fino al punto di essere completamente emarginati, rischiamo di essere licenziati da un datore di lavoro che guarda la produzione e che se ne infischia della tua fatica quotidiana nel gestire tutta la devastazione del tuo corpo ad opera di una malattia subdola, che quando ti prende sei sua per sempre, avvolta nelle sue spire sempre più strette. Per noi la vita diventa l’inferno. E’ un cane che si morde la coda, non hai scampo. Soffri per il dolore che nessuno vede, e in più sei anche stigmatizzato.

Tutto questo l’ho vissuto in prima persona e l’ho rivissuto ascoltando nei gruppi di auto aiuto, le testimonianze di altre/i nelle mie stesse condizioni. Quelle testimonianze erano copie conformi della mia situazione di malattia e sofferenza, uguali identiche.

Qualcuno riesce ad uscire da questo impasse, altri no, ma come biasimare questi ultimi. Noi siamo esseri umani e non siamo tutti uguali, ogni soggetto reagisce in modo diverso agli stimoli esterni, fisici e patologici, e le cure vengono sopportate da ciascuno in modo tutt’altro che standardizzato. È il motivo per cui a contatto con una certa sostanza c’è chi va in anafilassi e chi la tollera tranquillamente. Dovrebbe essere normale saperlo, per un medico, ma non è sempre così. Probabilmente perché molti medici si sono talmente abituati ad avere nel cassetto della loro scrivania il manuale dei protocolli al posto del giuramento di Ippocrate, che si sono disabituati al ragionamento preferendo agire prevedendo una loro tutela giuridica in caso nascesse una controversia legale nei loro confronti a causa di un errore medico.

Tutto quello che ho descritto, immaginate, per me è iniziato nel 2015, anno della diagnosi di Fibromialgia.

Premetto che la “sentenza” mi venne fatta da un neurologo. Fui colpita, in quel momento orribile della mia vita, da forti parestesie alle gambe. Non avevo sensibilità dal bacino in giù, le mie gambe non erano più fatte di carne, ma dure come cemento, al punto che non camminavo più e mi trascinavo letteralmente. Dopo circa un anno passato in quel modo, il neurologo emise il fatidico verdetto: “Fibromialgia”. Nella vita di chi riceve questa diagnosi, esiste una “vita prima” e una “vita dopo” la diagnosi, completamente stravolta rispetto alla prima. Da quel momento ad oggi, i vari medici che ho consultato mi hanno prescritto e consigliato di tutto, ed anche l’esatto contrario di quel tutto. Consigliato e prescritto a seconda della teoria del momento. Hanno seguito alla lettera tutto ciò che i “famosi” protocolli indicavano per il trattamento del paziente con fibromialgia. Per cercare di mascherare o attenuare il dolore, non hanno prescritto altro che farmaci presi a prestito da altri protocolli di cura, e che servirebbero per trattare ben altro, visto che, come noto, non c’è cura, non c’è nulla che possa risolvere i sintomi della fibromialgia.

I farmaci che di prassi si prescrivono in quest’ambito, poiché non curano ma cercano solo di tenere a bada un sintomo senza risolverne la causa, non impediscono a quest’ultima di continuare imperterrita a manifestarsi tramite il dolore, ed il dosaggio del farmaco, creando assuefazione, dev’essere aumentato sempre più, fintanto che anziché essere efficace, crea solo danno e dev’essere sospeso. Si prova un altro farmaco, e l’epilogo è lo stesso di quello precedente. Se paragonassimo banalmente la malattia all’acqua che sgorga dal rubinetto senza poterne chiudere il flusso, e fingessimo che il tappo del lavandino fosse il farmaco, ci accorgeremmo che il tappo non potrà nulla se l’acqua continuerà a scorrere nel lavandino, che si riempirà fino a far fuoriuscire l’acqua che continuerà imperterrita a scorrere fino ad allagare prima la cucina (un organo), e poi la casa (l’intero corpo umano).

A dimostrazione dell’immenso danno che provoca una delle regole stabilite nel protocollo di diagnosi della fibromialgia, che impone al medico, dopo la diagnosi, di non prescrivere più alcun accertamento diagnostico, nel corso di questi anni, in via del tutto accidentale, mi sono state diagnosticate via via altre patologie, croniche ed autoimmuni. Farò l’elenco, attenzione però, non a scopo vittimistico, lo farò perché mi sono sorti dei dubbi, dubbi che si rafforzano anche con il sentire, conoscere storie come la mia tramite il racconto di altri malati che si sono trovati nelle mie stesse condizioni, cioè aver avuto la diagnosi, il marchio “fibromialgia”, ed aver trovato, da quel momento in poi, un muro di gomma di fronte ad ogni richiesta di aiuto, perennemente inascoltati, marchiati come pazienti con diagnosi di malattia incurabile o immaginaria. Mentre subivo tutto questo, covavo ben altre malattie dentro di me, che purtroppo si sono evidenziate quando ormai non potevano più essere ignorate nemmeno dal più stolto degli uomini con il camice bianco.

Ecco l’elenco, non in ordine di diagnosi medica:

Fibromialgia, Artrite Psoriasica, Psoriasi, Tiroidite di Hashimoto, Sindrome di Reynaud, Osteocondrite di 4° livello alle caviglie , Spasmofilia, Artrosi mani e piedi.

Quali sono i dubbi che oggi mi assalgono?

Sono fibromialgica e tutte queste malattie sono correlate ad essa?

Non sono fibromialgica e quel giorno, il giorno in cui le mie gambe erano diventate di cemento e avevo perso la sensibilità, non erano altro che una sorte di “campanello di allarme” di tutto quello che poi è venuto dopo?

Come sapete tutti, non sono un medico, non ho studiato medicina, ma da malata mi pongo tante domande, ragiono tanto su tutti questi anni, 8 lunghissimi anni passati con dolori sempre più forti, anni in cui ho dovuto necessariamente gestire e sopportare incomprensioni, accrescere consapevolezza e coltivare pazienza, in mezzo a visite, esami e tanto tanto altro che non mi va di raccontare, ma che purtroppo ho vissuto. Sono giunta ad una conclusione e ripensando ad un proverbio che recita “E’ un gran medico chi conosce il suo male” ho maturato l’idea che la fibromialgia sia solo un campanello d’allarme, un’avvisaglia, e come tale sia la punta dell’iceberg di altre malattie.

E non essendo un medico, da anni parlo e scrivo solo per raccontare la mia esperienza personale, e quando nei gruppi che facilito, ascolto le storie di persone che soffrono come me, mi accorgo che in maniera simile a me, negli anni della loro vita di “fibromialgici” hanno sviluppato ben altre malattie, molte di esse di origine autoimmune.

Quindi ciò che mi domando sempre più insistentemente è: la Fibromialgia esiste come malattia a sé stante, oppure è una sindrome vera e propria, un insieme di sintomi che si manifestano in presenza di altre malattie che per comodo non vengono più ricercate, coperte dal mantello Fibromialgia, lasciando che esse stesse progrediscano fintanto che non esplodono nella loro gravità?

Sono dubbi legittimi, di una malata cronica che non ne può più di sopportare il male che non passa mai, e l’immobilismo, l’ignoranza, la mancanza di empatia e di ascolto.

Rosaria Mastronardo

L’araba fenice

Questa è la mia storia, una parte della mia vita vissuta con una malattia cronica ed invalidante. L’ho scritta in pieno periodo del lockdown. Oggi, nel 2023, non siamo più chiusi in casa e il virus SARS-CoV-1 è diventato una semplice influenza, così dicono gli scienziati.

Ricordo che era il 31 dicembre 2019 e la Cina comunicava la diffusione di un “cluster” di polmoniti atipiche di origine virale. Da quella data, panico nel mondo. C’è chi minimizzava e chi enfatizzava. Alcuni Stati, come l’Italia, senza un Piano di Emergenza per una Pandemia, ci chiudono in casa ed io per non annoiarmi, oltre a lavorare da casa, mi mettevo a scrivere. Pensai che sarebbe stato interessante scrivere un libro sulla vita di chi vive con una malattia cronica, attraverso le testimonianze delle dirette interessate, cioè di chi, tutti i giorni, con i figli, con un lavoro o senza, vive, si fa per dire, con una malattia cronica ed invalidante, non riconosciuta dall’Italia ma definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una malattia reumatica inclusa, nello stesso anno, 1992, nella decima revisione dello International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems con questo codice: ICD-10, codice M79-7, entrata in vigore poi il 1° gennaio 1993. Mi hanno sempre fatto credere che io avessi la fibromialgia per poi scoprire, in seguito, per puro caso, di non avere solo quella ma, altro, molto altro di più. Di quello che scoprirò dopo la fibromialgia, ho intenzione di raccontarlo in seguito, si comincia da qui, dalla Fibromialgia.

La mattina è sempre più difficile alzarsi: è durissima, ma devo lavorare. Non posso ancora andare in pensione: sono ancora troppo giovane secondo i regolamenti.

Compirò 61 a luglio del 2023, ma anche se lavoro da tanto tempo non ho i contributi sufficienti che mi permetterebbero finalmente di godermi un po’ di riposo.

Ho sempre contratto problematiche di salute da piccola. All’età di tre anni, sono stata operata alle tonsille perché non respiravo bene: mi hanno levato anche le adenoidi. Tra i dodici e i quindici anni ho accusato i primi mal di testa. Mio padre, comprensivo, mi portò da numerosi medici.

Per alcuni di loro, le mie condizioni erano dovute allo sviluppo del menarca precoce, sviluppato a dieci anni. Più tardi ho avuto problemi di vista, ed ho messo gli occhiali: certamente il tutto non soddisfaceva la mia famiglia che si adoperava a farmi fare più consulti per vedermi stare meglio ma poi altri problemi si ripresentavano. All’età di diciotto anni, mi rimossero dei polipi all’interno del naso perché avevo sempre dei forti raffreddori che duravano mesi. Forse poca cosa rispetto a problemi più gravi ma, in ogni modo, si andava avanti si sopportava una cosa dopo l’altra. Ero giovane e, vuoi l’età, vuoi qualche soluzione provvisoria, la mia vita scorreva così.

Nel 1985 mi sono sposata e sono andata a vivere in un’altra città. Sono nata a Napoli, sono una donna del sud e con mio marito mi sono trasferita in Toscana. Per quindici anni ho vissuto in provincia di Arezzo ma poi ci siamo trasferiti a Firenze: vivo in questa Regione ormai da quasi quaranta anni. Nel 1992 nasce il mio unico figlio, Davide, con parto cesareo.

Dal 1985 fino ai primi anni del ‘90 ho avuto problemi alla schiena. Discopatie, ernie che mi hanno portato forti dolori che risolvevo, quando mi era possibile (economicamente parlando) sia con esercizi inerenti alla ginnastica posturale sia con massaggi: quando i dolori erano insopportabili ricorrevo ad antidolorifici con prescrizione medica.

Inoltre come se non bastasse emersero problematiche di cefalee, che si presentavano e continuano a presentarsi frequentemente, spesso anche costringendomi a far riferimento al centro specializzato di un noto ospedale della città. Dopo la maternità, questa problematica è incrementata e non è mai andata via del tutto.

Iniziano poi i problemi allo stomaco. Gastriti, ulcere, mucosa di Barrett , problemi che mi costringono ancora oggi a gastroscopie da fare una volta all’anno o quando il gastroenterologo lo consiglia.

Non basta: analisi e rettoscopia mi diagnosticano il colon irritabile da stress.

Nell’anno 2016 subisco un intervento al braccio sinistro per compressione del nervo ulnare, fui costretta perché non avevo più l’uso del braccio.

Precedentemente ho avuto problemi anche alle spalle, soprattutto quella destra, ed oggi anche quella sinistra: per l’assottigliamento di un nervo, il reumatologo da me consultato voleva intervenire chirurgicamente.

Dopo essermi informata tramite colleghe col medesimo problema e constatato che, nonostante l’operazione, nessuna di loro aveva riscontrato miglioramenti, decisi di desistere. Ancora oggi ho fortissimi dolori.

Nel 2015 il mio primo contatto con la fibromialgia.

Iniziai a non sentirmi bene: ero particolarmente stanca e pensavo fosse influenza, oppure la stanchezza della mie frenetica routine.

Mi facevano male le gambe e facevo fatica a camminare: dolori ovunque.

Pensai ad un virus influenzale e presi il paracetamolo. Andai avanti così per qualche tempo ma i dolori aumentarono a tal punto che mi accorsi di non avere più sensibilità dal bacino in giù.

Purtroppo ricordo bene quel periodo, perché fu l’anno della tesi di mio figlio. Strano vero? Tuo figlio, sempre andato bene a scuola, borse di studio, premi, soddisfazioni enormi: arriva il giorno della laurea e tu sei più felice del solito, sei si stanca ma felice perché vedi realizzare un sogno, uno dei bei sogni del tuo ragazzo e di tutta la famiglia. Era il 1 dicembre del 2015: non posso dimenticare quello che è avvenuto dopo.

Mi portano così al pronto soccorso. Quel giorno lo ricordo bene. Avevo paura, tanta paura. Mi sottopongono a numerosi esami ma fortunatamente sono tutti buoni; gli stessi medici che mi visitano non sanno spiegarsi quei sintomi. Alla fine, il medico di turno mi disse che mi avrebbe fatto visitare da un neurologo e fece lui stesso le carte per affidarmi a questo specialista.

Fui fortunata: mi affidarono al primario di neurologia di quella struttura. Intanto la mia paura aumentò insieme ai miei dolori: quella sensazione di non avere sensibilità, quelle scosse che avvertivo quando mi toccavo le gambe erano sempre li : sentivo le gambe pesantissime come se fossero di cemento.

Passano 9 mesi tra esami di tutti i tipi, risonanze al cervello, radiografie, ecografie, esami ematici di tutto e di più. Nel frattempo perdo i capelli. Stress, confermato anche da un dermatologo al quale mi rivolgo.

9 mesi durante i quali mi imbottiscono di farmaci per alleviare i dolori, i quali si attenuano ma non di tanto, quel poco da permettermi di non stare ferma immobile nel letto.

Farmaci che mi portarono anche ad un notevole aumento di peso che non aiutava; mi si continuava a dire che non sapevano cosa darmi e che, soprattutto, non sapevano cosa io avessi.

Alla fine, quando tutti gli esami furono finiti e non vi era nulla che giustificasse quella condizione, il neurologo pronunciò la diagnosi: fibromialgia.

Ricordo ancora oggi la mia perplessità: chiesi subito al medico cosa fosse, che cos’era questa malattia, perché non ne avevo mai sentito il termine.

Non è una malattia, è una sindrome.” Sì, perché la fibromialgia non è riconosciuta come malattia.

La fibromialgia non è riconosciuta come malattia: per molti medici, sia per la scarsa formazione sulla malattia, sia per incredulità e sfiducia nei confronti di molti/e di noi, la fibromialgia non esiste per alcuni medici. Spesso si crede che sia un’invenzione, o comunque un surrogato utilizzato come capro espiatorio per altre problematiche.

Non ci sono farmaci che la curano e si sa poco o nulla; c’è, diciamo, una sorta di confusione scientifica, discordanze tra branche specialistiche della medicina.

La mia seconda domanda, lo ricordo come se fosse oggi, fu se questa sindrome fosse ereditaria: avendo un figlio mi preoccupai subito per lui, pensai che se fosse stata ereditaria io mi sarei sentita responsabile anche di aver trasmesso una malattia a mio figlio.

Il medico mi tranquillizzò. Ad oggi alcuni studi affermano che la sindrome è ereditaria ma su linea femminile. Tirai un sospiro di sollievo. La ricerca, la poca ricerca che è stata fatta su questa sindrome, ha rilevato nel mondo pochi casi di fibromialgia in soggetti maschi. Oggi che c’è più consapevolezza sulla sindrome, se ne parla e se ne discute di più e questa tesi è smentita da tantissimi esperti reumatologi, algologi e neurologi che se ne occupano: non solo sono colpiti in misura minori anche i maschi ma si è a conoscenza anche di casi di fibromialgia su bambini e adolescenti ma si continua a non conoscerne la causa.

Iniziò così la cura a base di farmaci che servirono solo ad alleviare i dolori. Sono farmaci che curano l’epilessia e la depressione. Questi farmaci agiscono sul sistema nervoso e alleviano i dolori. Altre cure non ce sono, esistono solo espedienti e rimedi farmacologici per alleviare i dolori.

Mi prepararono un piano terapeutico che ogni tre mesi dovevo rinnovare composto da Cymbalta 60 mg, (contiene la duloxetina, un principio attivo che serve per il trattamento delle depressioni maggiori, dei disturbi d’ansia e dei dolori causati da neuropatie periferiche) e da Lyrica 75 mg (Pregabalin è un antiepilettico-anticonvulsivante che trova indicazione specifica nel trattamento del dolore neuropatico centrale e periferico).

Tutto questo a vita, se volevo stare bene e condurre una vita normale.

Mi fu consigliato anche di condurre una vita normale senza stress e senza preoccupazioni.

Utopistico e irrealizzabile, ma furono queste le uniche raccomandazioni del neurologo al quale fui affidata quel 1 dicembre del 2015.

Sembrerà strano ma alla fine di questo calvario mi ero un po tranquillizzata, poiché sapevo cosa mi aveva colpito: nonostante fosse una sindrome sconosciuta e senza cura, sapevo. La mia mente non era più invasa da pensieri cattivi, non sarei morta, non era un male di quelli che fanno paura anche a parlarne: il cancro. No, nulla di tutto questo.

La fibromialgia, detta anche sindrome fibromialgica o sindrome di Atlante, è una sindrome reumatica idiopatica e multifattoriale che causa l’aumento della tensione muscolare, specie durante l’utilizzo degli stessi, ed è caratterizzata da dolore muscolare e ai tessuti fibrosi (tendini e legamenti) di tipo cronico – diffuso, fluttuante e migrante – associato a rigidità, astenia (calo di forza con affaticabilità), insonnia o disturbi del sonno, alterazioni della sensibilità (come eccessiva percezione degli stimoli) e calo dei livelli di serotonina, con possibili disturbi d’ansia e depressivi in parte dei pazienti. E’ conosciuta anche come la malattia dei 200 sintomi.

Ecco cosa mi aveva colpito. Sono una donna molto curiosa, mi piace leggere, mi piace documentarmi, mi piace studiare e comincio le mie ricerche su questa sindrome.

Mi imbatto in diverse associazioni o presunte tali. Li contatto, scrivo lettere per documentarmi, per avere delle risposte, informazioni più dettagliate, più “fresche”.

Vorrei fare una premessa, mi sento in dovere di farla. Non conoscevo il mondo delle associazioni dei malati ma, già dal mio primo contatto che prendo con il presidente di una di queste, capisco che sarà dura interagire con esse.

Noi malati di fibromialgia proviamo in tanti modi a farci sentire ma essendo una malattia di cui ancora la scienza non ha scoperto la causa non c’è attualmente nessun esame diagnostico che ne dimostra la presenza nell’individuo: siamo poco ascoltati, non considerati e in molti casi non creduti. In più i medici tendono a pensare che sia una malattia da depressione, il che può essere anche vero visto che con dolori continui tutto il giorno in depressione è possibile caderci davvero. E’ ovvio che c’è qualcosa di più. Ma cosa sia attualmente ancora non si sa.

La prima di queste associazioni nella veste del presidente mi chiama anche sul cellulare. Quando scrivo a qualcuno, lascio sempre tutti i miei recapiti, desidero essere “visibile” e rintracciabile. Dice che capisce tutto, comprende perché in casa sua lui vive la stessa condizione con la moglie, insomma un sacco di parole ma non è che mi soddisfi più di tanto. Comincio a documentarmi da sola con Internet. L’inferno, la confusione più totale, trovo di tutto, santoni o presunti tali che affermano di guarirla, che promettono miracoli con prodotti naturali, insomma il caos assoluto.

Nel frattempo i farmaci che assumo incominciano a darmi noia allo stomaco. Mi rivolgo al medico e questi ne aggiunge un altro. Un “salva stomaco”, si chiamano comunemente così, servono a questo, proteggono la mucosa dello stomaco per non fartelo “bucare” ma per il mio corpo, è un farmaco aggiunto.

Tra le mie ricerche nel mondo della rete, mi imbatto in un sito dove si parla di cannabis terapeutica.

La cannabis terapeutica, definita anche “l’oro verde”, viene utilizzata in tante patologie.

Si va dall’emicrania alla sclerosi multipla, passando per glaucoma, Parkinson, Alzheimer, dolori cronici e neuropatici, anoressia, cachessia, diverse forme di epilessia e molte altre patologie.

Insomma, era interessante e mi sono detta perché non provarla? Mi informo sulle strutture dove viene prescritta e trovo quella più vicina a me.

Incontro un medico il quale, dopo avergli raccontato tutto il mio calvario, mi propone la cannabis terapeutica. In quella struttura c’era e vi è ancora un protocollo da seguire.

Mi attengo al protocollo. Inizio l’assunzione della cannabis terapeutica, prima in decotto dal sapore discutibile e poi successivamente, sempre attenendomi al protocollo, inizio con l’olio di cannabis.

Betrocan in olio, da assumere una volta al giorno, la sera, per 15 gocce al giorno THC 19%. Via via sospendo interamente tutti i farmaci.

Devo ammettere che per i primi mesi cominciai a star molto meglio. Non sentivo più la stanchezza, mi sentivo più in forma, avevo sempre i miei dolori ma in modo molto più attenuati. Faccio tanto, mi dedico all’attività di volontariato per la mia sindrome, raccolgo firme, invio email a tutte le testate giornalistiche, mi occupo come sindacalista delle problematiche sul lavoro per tutti quelli che sono nella mia stessa condizione, dormo bene e meglio: insomma, la vita scorre, va avanti. I farmaci ormai sembrano un lontano ricordo ma non vengono sospesi del tutto.

Ecco però che incominciano i primi problemi.

Iniziano i primi mal di testa. Come accennavo prima, ho sempre sofferto di cefalee, ma questi dolori alla testa erano diversi. Io la cefalea la conoscevo bene, questi dolori non erano simili a quelli che ricordavo aver avuto.

Avevo la sensazione di avere dei chiodi piantati, una volta in fronte e altre volte alle tempie ed erano dolorosissimi.

La frequenza inizialmente era di una o due volte al mese, poi diventarono sempre più numerosi fino ad arrivare tutti i santi giorni.

Per non parlare poi dei cambi di umore, della rabbia per futili motivi, della pressione alta, delle palpitazioni, della sincope che mi colpì, dell’aumento della pressione oculare, insomma una serie di sintomi che via via accusavo e che non avevo mai avuto prima, una problematica alla volta, si presentano una alla volta e me li dovevo tenere e curare naturalmente.

Soldi spesi tra visite specialistiche e nuovi farmaci da assumere.

Sono ancora in contatto con il medico che mi aveva prescritto e continuava a prescrivermi la cannabis confermando il piano terapeutico anche se al corrente di tutti questi numerosi effetti collaterali.

Continuo ad attenermi alle regole, seguo tutte le indicazioni: alla fine, dopo l’ennesimo mal di testa della giornata, non resisto più e rinuncio alla cannabis, perché gli effetti collaterali da me elencati, sono tutti da imputare alla cannabis terapeutica secondo a quanto dicevano i medici ai quali mi rivolgevo per i miei problemi di salute. Quindi inizio la sospensione della cannabis: alla fine cede, dietro mia insistenza, anche il medico che mi aveva suggerito di assumerla, non senza polemiche.

Ormai ero distrutta.

Ritorno mio malgrado ai farmaci con gradualità e dietro naturalmente prescrizione medica. Non stavo benissimo, avvertivo rigidità alle gambe, pesantezza, difficoltà nella deambulazione, mi sembrava di essere tornata allo stato iniziale della malattia.

A marzo del 2018 cambio medico e struttura ospedaliera. Da lì a poco avrei dovuto rifare tutti gli esami: già tre giorni fissati in una nuova struttura ospedaliera per degli day service dove sarei stata sottoposta nuovamente a tutti gli esami. Qualcuno potrebbe chiedersi il perché mi sia sottoposta a tutti gli esami sapendo di avere questa sindrome.

Questa è seriamente è una delle cose più tristi di questo mio calvario.

Quando mi sono recata in questa nuova struttura ospedaliera per il mio caso e faccio presente che sono anni che convivo con questa condizione , il medico che mi è stato affidato dal S.S.N., dopo avergli fatto vedere tutte la lunga documentazione riconducibile alla mia sindrome e dopo avergli detto che stavo malissimo, che avevo dolori ovunque nonostante i farmaci che assumevo elencati sopra, disse che lui non metteva in discussione le certificazioni dei professionisti che mi avevano visto in tre anni prima di lui, ma suggerì di ricominciare dall’inizio.

Le sue parole furono queste:

Vede signora, non metto in dubbio tutto quelle che lei mi riferisce circa la sua condizione di salute ma di solito i medici quando i pazienti dopo i vari esami ai quali li sottopongono, non riscontrano nulla, affermano che è fibromialgia. Se permette, vorrei ricominciare dall’inizio per essere certo che lei, seriamente non abbia nulla oppure potremmo scoprire qualcosa che è sfuggito ai miei colleghi che mi hanno preceduto o ancora, ultima ipotesi il suo problema è di ben altra natura”.

Non voglio e non ho voluto sapere a quale natura stesse pensando quel medico, non voglio, mi rifiuto di pensare, mi rifiuto.

Quando sono uscita da quella struttura, mi sono venute in mente le parole del primo medico al quale mi affidarono, ricordo che era il primario di neurologia dell’ospedale dove fui portata la prima volta.

Signora, non si preoccupi, non si allarmi, lei deve solo condurre una vita normale, il più normale possibile ma soprattutto, mi raccomando, conduca una vita quanto più serena possibile, senza troppi stress e senza troppe ansie”.

Dopo i tre giorni di day service in questa struttura, dai numerosi esami alla quale fui sottoposta è risultato che, oltre ad essere affetta dalla sindrome fibromialgica, sono affetta da spasmofiliaca concomitante e ipovitaminosi D (carenza di vitamina D).

Ebbene, oggi alla luce di tutto quanto mi è accaduto mi sta accadendo e non so ancora quanto finirà questa storia, io vi chiedo: può una donna che ha passato gli ultimi anni in queste condizioni, rimanere tranquilla e serena? Voi lo sareste?

Lascio la risposta a chi leggerà questa mia storia, nel frattempo io vado avanti, cerco di fare tutto quello che la mia poca forza mi permette di fare ma credetemi, rimanere serena in questo modo, è la cosa più difficile che io possa fare. Io non ci riesco, ma mi sforzo tantissimo!

Però, come dice sempre una mia carissima amica, io riesco sempre in tutto, sono forte, lei mi dice che sono come la “fenice”.

L’ araba fenice è un essere mitologico. Un uccello che vive 1000 anni, poi emigra in Africa in Etiopia dove prende fuoco e brucia. Quando il fuoco si spegne restano solo le ceneri che al sorgere del sole fanno nascere una nuova fenice. Essere una fenice significa non abbattersi, significa rialzarsi quando ti danno già per spacciato.

Non voglio deludere la mia amica, in fondo credo che abbia ragione. Sono come l’araba fenice. Mi sono sempre rimboccata le maniche, mi sono sempre rialzata e ho sempre combattuto per le ingiustizie, per i più deboli, ho fatto tanto e voglio continuare a combattere anche nelle mie condizioni di salute non del tutto buone.

Oggi, purtroppo il mio stato di salute è peggiorato. Sono sopraggiunti altri sintomi ed è ricominciato per me, per la mia famiglia, nuovamente, il travagliato girovagare tra medici, esami e strutture ospedaliere alla ricerca di una cura, di risposte che spesso, molto spesso, contrastanti tra loro.

Quello che ho scoperto, hanno scoperto i medici ai quali mi sono rivolta, in un prossimo racconto, se avrete la voglia di seguirmi e di leggerlo, sarà interessante, intrigante, e stimolante.

A questo punto del racconto, mi piace ricordare, non solo per non deludere la mia amica ma per chi leggerà, una frase di Antonio Gramsci:

Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio“.

L’ho fatto, purtroppo. Tutto è ricominciato e lo scoprirete in un successivo post.

Rosaria Mastronardo

Quelle perdite che ti fortificano

Per quelli di noi che hanno a che fare con il dolore cronico, tutto il giorno, tutta la vita, fa parte della/e malattie che ti hanno diagnosticato, siano esse visibili o non visibili. Con una, due e forse più malattie croniche, perdi molto, tanto. Le prime cose che perdi sono di tipo personale; lentamente il tempo passa inesorabile e ti rendi conto che il tuo corpo non è quello che conoscevi una volta. In effetti, in un certo senso piangi quella perdita, piangi il corpo che non c’è più. Piangi per non poter fare quello che facevi prima, ti senti come si ti mancasse una parte di te. Questo è il primo colpo, la prima vera e grande perdita.

Poi arriva la perdita della tua credibilità. Per quanto le persone intorno a te sappiano che ti è stata diagnosticata una malattia cronica, e/o anche più di una, resta il fatto che all’esterno tu sembri normale. Quei giorni in cui sei così stanco e dolorante, non li vede nessuno, li senti solo tu. Anche quando lavarsi i denti richiede tutta la tua forza o quando sei così confusa con quella maledetta “fibro fog” che sembra non nulla abbia senso, eppure tu sei “dentro” una nuvola che ti confonde, ti disorienta, mentre tu vivi questa brutta esperienza, gli altri pensano che tu stai esagerando e ti invitano a fare qualcosa, a reagire.

Poi c’è la tua vita sociale. Man mano che impari ad affrontare il tuo nuovo “stato” di vita con i tuoi dolori che non passeranno mai, rifiutare o accettare diventa il tuo nuovo stile di vita. Gli occhi degli amici sono sempre su di te e pensano di te le cose più fastidiose: sei diventata maleducata perché rifiuti ancora una volta un loro invito a cena, al cinema, al matrimonio dell’amico, ti isoli, non balli, stai sempre seduta e non vedi l’ora che tutto finisca. Sei un peso, sei persino odiosa, per qualcuno. La delusione più grande per te e che nessuno dei tuoi amici, pensa che stai facendo uno sforzo nell’accettare l’invito a quel matrimonio, che ti stai sforzando di tenere i tuoi piedi in scarpe nuove e non comode per te ma che tu hai dovuto indossare per l’occasione e che tutto questo lo “sconterai” domani e forse anche per tanti giorni dopo. Tu stai dando il massimo di te e non hai neppure la comprensione da un amico, è deludente.

Non sanno, quelli che non hanno malattie croniche come le nostre che, stiamo facendo un grande sforzo per apparire “normali”, non lo sanno.

Cosa c’è di più da perdere? Bene, te stessa, noi stessi. Credo che non si possa affrontare la vita portando la cartella clinica sotto il braccio in modo che le persone riconoscano la tua malattia. Inoltre, non puoi continuare a cercare di apparire normale spingendoti al massimo dei tuoi limiti al lavoro, a casa o in società. Credimi, cercare di apparire normale è mentalmente estenuante, fisicamente impossibile e, francamente, non è un modo di vivere. Accetta questa nuova te, nel bene e nel male.

Accettiamoci. Accettatevi.

Le malattie croniche sono una costante battaglia quotidiana e doverti spiegare, nasconderti e fingere, ti mangerà, ti divorerà. Allora mi sono detta e vi dico: conta quello che hai perso e conta quello che hai vinto. Tu ed io siamo qui! Noi stiamo combattendo! Personalmente, sulla mia strada ho perso molte cose, e va bene perché questa “nuova persona” che sono diventata, è più forte di quella vecchia me .Combatto contro il dolore e la stanchezza ogni giorno. Alcuni giorni vinco, altri giorni perdo, ma va bene perché ho accettato che la mia malattia che non se ne andrà, ma nemmeno io.

Provate a fermarvi.

Rosaria Mastronardo

Essere felice dopo una diagnosi di fibromialgia, è possibile?

Una testimonianza di Tammy Freeman che scrive delle sue esperienze in una community dando voce alla popolazione di malati cronici.

Tre giorni fa sono andata da un nuovo specialista, un reumatologo. Ero preoccupata, poiché questo sarebbe stato il mio settimo specialista, ma volevo davvero capire cosa stesse causando la mia stanchezza e il mio dolore diffuso. Mi era già stata diagnosticata l’Hashimoto, e questo da sola poteva causare affaticamento e dolore ma non ha spiegato completamente perché, ad esempio, posso dormire per 15 ore e svegliarmi ancora stanca e per niente riposata. Perché ho un dolore quotidiano che mi distrae dalle mie attività quotidiane. Perché il mio corpo si sente solo pesante come un’ancora.

Quindi, sono entrata nervosamente nell’ambulatorio del reumatologo e, per fortuna, mi ha preso sul serio, anche quando ho fatto una battuta imbarazzante sull’essere una ipocondriaca. Ha fatto un esame fisico completo, ha rivisto il mio precedente esame del sangue, ha discusso la storia familiare, e poi abbiamo avuto una lunga conversazione su come mi sento, quali sono i miei sintomi, cosa sto già facendo per controllare quei sintomi, e così via. Ha trascorso molto tempo con me. E sulla base di tutti questi elementi, e escludendo alcuni altri come la malattia di Lyme e l’artrite, ha detto che è fibromialgia.

Che peccato, mi disse il reumatologo e non capii subito, poi ridacchiò un po, tornando serio, aggiunse: “Leggerai che non è una vera malattia, ma lo è. È una vera malattia e non è nella tua testa”.

La mia reazione? Sono scoppiata in lacrime e senza fermarmi gli ho confidato quanto mi mancasse la persona che ero prima, quella che si poteva alzare alle 6 del mattino e che si teneva occupata fino alle 23 e che era in grado di rifare tutto il giorno successivo. Gli ho confidato della mia pigrizia insorta negli ultimi quattro anni, cioè quando sono iniziati i miei problemi di salute e come la mia salute emotiva fosse stata influenzata, e come mi sentivo in colpa per quello che vivevo. Ha ascoltato con calma e mi ha detto che questi sentimenti spesso sono causa della fibromialgia e mi ha detto con fermezza che non sono affatto pigra. Ha detto anche che, dal nostro colloquio, da quanto raccontato in quel giorno, che io ero in grado, per la determinazione, di prendermi cura di me stessa.

Ho lasciato quell’ambulatorio sentendomi rinata. Certo, faceva piacere che tutto quanto mi stesse capitanando avesse un nome e non fosse frutto della mia pigrizia o ipocondria.

Anche giorni dopo, ho continuato a provare un sollievo assoluto. Ho un nome per la stanchezza travolgente e ho una ragione per cui i miei fianchi, la schiena, le spalle fanno costantemente male e ho quelle sensazioni di spilli e aghi nelle mie mani. Ancora non cambia nulla ma di certo non è nella mia testa, non è un riflesso di chi sono, non è un fallimento da parte mia, non è a causa di qualcosa che sto facendo male o non facendo bene. Non l’ho fatto a me stessa. Sono sollevata dal fatto che sebbene questa sia una malattia che dura tutta la vita, posso smettere di inseguire specialisti e nuovi esami del sangue e infinite ricerche su Google e posso smettere di cercare di capire tutto: Perché mi fa male la testa? Sono disidratata? È un mal di testa da stress? Mi fa male la schiena? Ho esagerato quando sono andato a fare la spesa e ho pulito la casa lo stesso giorno? Perché dormo così tanto? Sono depressa? non mi sento depressa, ma dormo mezza giornata, quindi forse ho bisogno di parlare con qualcuno. Perché la mia mano è di nuovo formicolante? Sto bene. Non è nella mia testa. C’è una ragione per tutto questo. Non può essere curato, ma può essere controllato, ma soprattutto, non è nella mia testa e posso smettere di cercare costantemente risposte. Ora, basta.

E sono grata per questo. Non fraintendetemi. Non lo augurerei a nessuno. Ma è un sollievo avere una ragione medica, scientifica, ufficiale per tutti questi sintomi.. Non è nella mia testa. Sto andanda avanti. Posso prendermi cura di me stessa, e questo è un enorme sollievo. Quindi oggi sono felice.

Devo andare avanti, andiamo avanti.

Al medico che ha ripristinato la mia fede nella medicina.

Una testimonianza di Peyton Izzie fibromialgiaca, che ha avuto la fortuna di incontrare un professionista che l’ha capita, compresa e sostenuta.

Chi è Peyton Izzie? Questa è una sua lettera ad un medico che la segue nella sua lunga lotta con la fibromialgia. Chi sa quante di noi, avrebbero voluto fare un gesto simile se avessimo incontrato un medico come quello di Peyton.

Peyton è una di noi che nel suo blog ha scritto:

Quando ho perso le forze, ho ritrovato la mia voce. Fibromialgia, disturbo da stress post-traumatico, cecità parziale e sordità… tanta sfortuna, ma ho continuato a lottare per un trattamento equo per le malattie invisibili. A parte quando dormo, mangio o scrivo, non sono mai più felice di quando ho una macchina fotografica in mano e qualcosa di bello davanti al mio obiettivo”.

Caro Dottore,

Ci sono così tante cose che vorrei poterti dire, ma in tutta onestà, abbiamo solo dieci minuti insieme e di solito il mio corpo mi sta deludendo in così tanti modi che è impossibile per me parlare di qualcosa di diverso da come la fibromialgia sta rovinando il mio corpo.

Vorrei poterti portare a prendere un caffè, te lo meriti e raccontarti della prima volta che ci siamo incontrati. Vorrei poterti raccontare delle lacrime che ho pianto quando mi hai creduto quando ti ho raccontato i miei sintomi. Ti parlerei delle dozzine di dottori che avevo visto prima di te, dei respingimenti, del disgusto, dell’incredulità e dei commenti maleducati. Eri la luce alla fine di un tunnel lungo, oscuro e doloroso, e io ero stata nell’oscurità per così tanto tempo che ero convinta di essere diventata cieca.

Ti direi che hai ripristinato la mia fiducia nella medicina. Che anche se sono stata delusa così tante volte prima e innumerevoli volte dopo averti incontrato – non mi ha fatto così male, perché sapevo che potevo venire da te, piangere con te e trovare i passi successivi . Mi hai tenuto per mano, hai sentito le mie grida e placato le mie paure, e per questo ti sarò eternamente grata. Perché so che, qualunque cosa venga dopo in questa battaglia senza fine , che con te al mio fianco, potrei uscirne viva.

Arriva il punto in cui ti viene ripetuto più e più volte che è tutto nella tua testa, che non c’è niente che non va fisicamente, che devi solo sforzarti di più ed esercitarti di più, mangiare di meno, metterti in forma, essere in salute. Arriva il punto in cui hai sentito tutto questo così tanto che inizi a pensare che stai diventando pazza. Questo dolore è reale? Sto in qualche modo immaginando tutti i miei sintomi? Sono solo pigra? Inizi a chiederti se qualcuno ti prenderà mai sul serio, troverà qualcosa che non va in te e lavorerà per aiutarti.

Ed è qui che entri in gioco tu. Perché in ogni fase del mio viaggio, sei stato lì per condividere il mio disgusto, la mia rabbia e la mia indignazione per ogni dottore che si è scrollato di dosso i miei sintomi. Sei stato lì per riprendere la mia lotta quando sono troppo esausta per alzare la testa. E tu mi hai sempre creduta. Anche quando sembra ridicolo o improbabile, mi hai sempre preso sul serio e hai creduto che i miei sintomi fossero reali e li hai trattati seriamente come qualsiasi altra malattia fisica.

E prima che le nostre tazze di caffè finiscano, ti chiederei della tua vita. Sei felice? Hai tutto ciò di cui hai bisogno? Sei trattato in modo equo al lavoro? Ti darei il mio tempo e ti ascolterei. Per tutto il tempo che mi hai dato. Essere un medico è una professione meravigliosa e altruista, ma ci sono persone reali dietro le lauree in medicina e ascoltare / vedere il dolore che le persone provano giorno dopo giorno. Può logorarti.

Ho già detto quanto sia ingrata la professione medica, e quindi tutto quello che posso dire di nuovo è, grazie, per tutto quello che fai per me e per i molti altri pazienti sotto le tue cure. Se tutti i dottori fornissero come te e se usassero lo stesso standard di cura e trattamento che usi per me, allora la fibromialgia non sarebbe mentalmente dannosa la metà di quanto lo sia adesso. Tutto quello che possiamo fare è sperare che un giorno altri dottori seguano il tuo fulgido esempio.

Grazie per quello che sei

Peyton Izzie

Il “sistema famiglia”

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo che seguono oggi.

Il “sistema famiglia

Anche il “sistema famiglia” deve quindi confrontarsi con una perdita momentanea d’equilibrio e una necessaria ridefinizione dell’assetto dello stesso nucleo familiare. I congiunti, come il paziente, a seguito della comunicazione della diagnosi, possono andare incontro a emozioni intense e quindi mettere in atto meccanismi difensivi più o meno rigidi per arginarne la loro dirompenza, quali ad esempio la tendenza a negare, minimizzare la malattia o le emozioni, oppure attuare la strategia del silenzio e, magari, consciamente o inconsciamente, volgere lo sguardo altrove.

Può accadere infatti che i componenti della famiglia del paziente non credano del tutto ai sintomi che il loro congiunto riferisce o che non lo aiutino a sufficienza, affinché possa utilizzare le sue energie residue, siano esse fisiche o psichiche, e adattarle proficuamente al quotidiano. Questo genera una fase molto complessa sia per il paziente sia per il nucleo familiare che fatica a confrontarsi con l’immagine del proprio congiunto malato e con quella dimensione in cui esso stesso gravita: la malattia cronica.

La modalità con cui la famiglia reagisce ai disagi del suo congiunto costituisce quindi uno degli elementi più importanti, in grado di agire, anche e soprattutto, come fattore protettivo, ma può farlo solamente se è capace di fornire aiuto sia sul piano pratico sia nella condivisione delle emozioni, attuando buone strategie per far fronte alle situazioni stressanti.

È importante allora che vengano attivate e rafforzate le risorse personali e ambientali, affinché ci si possa occupare con maggiore competenza ed efficacia dello stato di salute psicofisica non solo del paziente soggetto a cronicità, ma anche dei componenti di tutta la sua famiglia. Un sistema, quello familiare, che per essere funzionale deve riuscire a bilanciare le proprie risorse e le vulnerabilità, in relazione alle richieste psicosociali imposte dalla malattia nel corso del tempo.

In tal senso è di primaria importanza l’identificazione di contesti in cui sia possibile sostenere e rafforzare le risorse del paziente, quelle della rete familiare in cui è inserito e dei suoi caregivers, affinché possano far fronte alla nuova dimensione imposta dalla cronicità. Per far sì che una famiglia riesca a fronteggiare la patologia è necessario analizzare il funzionamento familiare in termini di credenze, organizzazione, comunicazione; è importante comprendere il significato psicosociale della malattia e comprendere i processi di sviluppo che ad essa sono connessi.

Questo vuol dire occuparsi di tutte quelle dinamiche psicologiche che maggiormente intervengono sulla dimensione curativa e/o riabilitativa del paziente. Si tratta di elementi che ci mostrano come il paziente sia capace di reagire, di contattare il suo mondo emotivo, di vestire di nuovi significati la propria esperienza e far fronte a condizioni stressanti o foriere di frustrazione.

Mi riferisco quindi a tutte quelle situazioni che maggiormente agiscono sulla dimensione della cronicità, come ad esempio le strategie di: coping; locus of control; e qualità della vita. Si parla di strategie di coping quando ci si riferisce a quegli agiti comportamentali che hanno come obiettivo quello di ridurre o tollerare meglio le condizioni stressanti che si originano da situazioni complesse, come ad esempio fare sport per scaricare la tensione o lo stress.

Il locus of control, invece, corrisponde alla convinzione di essere in grado di poter o meno esercitare un qualche tipo di controllo sulla propria condizione. Convinzione che si può tradurre nell’adozione di un atteggiamento generalizzato di maggiore o minore passività nei confronti della malattia cronica e comunque di qualsiasi forma d’aiuto (Lera, 2001). Ciò diventa particolarmente rilevante quando si applica il costrutto del locus of control all’ambito della psicologia della salute, poiché la valutazione che l’individuo compie della sua condizione psicofisica diventa, infatti, una variabile importante nel motivare l’adozione di un determinato modello reattivo (Lera & Macchi, 2012). Numerose ricerche effettuate nell’ambito del benessere e della qualità della vita (Fitzpatrick, 2000; Nordenfeit,2013) hanno messo in evidenza come ogni individuo, in base alle proprie condizioni di salute psicofisica, personalità e stile di interazione con le opportunità offerte dall’ambiente, sviluppi una valutazione personale di cosa sia una buona qualità di vita.

Infine, in ambito clinico sanitario, il tema della qualità della vita è divenuto nel corso degli anni sempre più importante e centrale, consentendo una transizione fondamentale: si è passati infatti da una concezione della salute e della qualità della vita umana più organicistica a una più umanistica. I fenomeni legati alla salute sono considerati come necessari ma non sufficienti ad una descrizione globale della vita e della sua qualità. Attualmente all’espressione QoL (Quality of Life) si preferisce utilizzare quella di qualità della vita correlata alla salute, Health Related Quality of Life (HRQoL), in cui si tiene in considerazione come gli aspetti della salute fisici, psicologici e sociali vengano influenzati da credenze, obiettivi ed aspettative degli individui. Maggior enfasi è posta sulla centralità della persona in un approccio centrato sul paziente (Rinaldi et al. 2001).

Buona lettura

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica.

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT:

https://www.cesvot.it/ previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo è psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli, questo è il primo di oggi.

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Quando si giunge finalmente alla diagnosi, questa può paradossalmente generare un momentaneo sollievo, perché il paziente si sente finalmente legittimato agli occhi degli altri nella sua condizione di sofferenza e malattia. Quella consolazione temporanea cede però ben presto il posto ad un coacervo di emozioni. Scoprire di essere ammalato, e di esserlo quasi certamente per sempre, crea comprensibilmente uno shock, una sorta di lacerazione interna, che fa vacillare il senso di certezza che fino a quel momento aveva accompagnato il percorso di crescita personale.

Ogni individuo ha infatti un personale e soggettivo modo di elaborare la malattia che l’ha colpito. La perdita dello stato di salute è infatti paragonabile a un vero e proprio “lutto” e per certi versi sembra ricalcare le fasi della sua elaborazione. La diagnosi, dopo quel momentaneo sollievo, potrebbe comportare nel paziente il manifestarsi di profonde reazioni emotive; se all’inizio possono portare a dissimulare comportamenti più o meno congrui a quanto sta accadendo, successivamente ci può essere la messa in campo di forti meccanismi difensivi, come la negazione, la proiezione, la regressione ma anche la razionalizzazione.

Il “lutto” genera una sorta di frattura tra ciò che si era prima che insorgesse la malattia e ciò che si è dopo; si tratta di uno spartiacque temporale che impone al paziente un confronto rispetto al proprio passato, sia esso più o meno recente, e un presente fatto di cambiamenti, di nuovi adattamenti e riadattamenti. È un percorso in divenire in cui il paziente deve imparare ad accogliere nella sua quotidianità, oltre agli aspetti prettamente organici della sua malattia, anche tutta una serie di nuove variabili con cui deve imparare a confrontarsi. Chi si ammala di una patologia cronica deve infatti affrontare, oltre alle cure mediche, una serie di disagi psicologici, legati ai possibili cambiamenti fisici, agli effetti collaterali dei farmaci, a un modo di vivere che potrebbe essere diverso da ciò che è stato fino a quel momento.

Si tratta di un processo complesso in cui può anche accadere che il paziente, immerso nell’affannosa ricerca della dimensione in cui collocare il proprio malessere, ponga maggiormente la propria attenzione alla componente fisica del proprio disagio, focalizzandosi esclusivamente su tutti quegli aspetti negativi che la malattia ha comportato ed in particolar modo, rapito dall’ansia anticipatoria, su tutti quei progetti o attività che la nuova condizione di salute potrebbe non permettergli più di svolgere.

Tutto ciò lasciando in secondo piano gli aspetti psicologici implicati nell’eziologia dei sintomi. È come se la sofferenza fisica avesse il sopravvento su quella psichica, rispetto alla quale il paziente ha spesso difficoltà a entrare in contatto. Tale condizione, se protratta nel tempo, può causare una frattura tra la dimensione somatica e psichica; una frattura di cui è importante occuparsi in maniera tempestiva. I sintomi possono mantenersi silenti o peggiorare con il tempo, creando talvolta anche disagio, imbarazzo e vergogna o reazioni psicopatologiche specifiche. Numerosi studi hanno evidenziato una maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore e un maggior numero di agiti anticonservativi nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto ai gruppi normativi (Nordenstrom, 2011, Chiesa et. al., 2013).

Le reazioni dipendono dalle caratteristiche personali del paziente, dall’insieme dei significati attribuiti alla malattia e, soprattutto, dalle condizioni di cura. L’impossibilità di dare senso, anche parziale o temporaneo, agli eventi, alle emozioni rappresenta una delle situazioni di massima sofferenza per l’essere umano. Tutto ciò può incidere negativamente sulla compliance alle cure.

Sono questi gli effetti collaterali della malattia cronica che, nel momento in cui fa irruzione nella vita di un individuo, ne altera e infrange gran parte dei precedenti equilibri, imponendo, accanto al depauperarsi della salute fisica, anche la messa in discussione dell’identità personale, la cui costruzione è un processo in continua evoluzione che dura per tutta la vita e permette, pur mantenendo un senso di sé stabile, di operare dei cambiamenti in relazione alle esperienze vissute nel corso della propria esistenza.

Le caratteristiche di continuità e pervasività di tale condizione comportano, infatti, l’innescarsi di un lungo e non facile processo, che va dalla simbolica separazione dell’immagine corporea antecedente alla malattia alla condizione di cronicità: è un’immagine che talvolta risulta essere danneggiata o modificata dall’affermarsi della malattia cronica. E questa condizione ha spesso un impatto sul corpo, sia in termini di aspetto sia di funzionalità. Ciò che ne consegue è allora un’importante trasformazione anche dello schema corporeo della persona stessa.

È quindi importante per il paziente saper riconosce re i limiti che talvolta la malattia impone e poter ridefinire, se necessario, alcuni aspetti della propria identità personale per evitare inutili ed estenuanti sfide contro se stessi, con l’unico obiettivo di rincorrere e ricalcare quell’immagine di sé che si aveva prima della diagnosi.

Tutto ciò comporta un nuovo modello d’integrità psico-fisica, in cui è necessario inserire non solo la diversa condizione del proprio corpo, ma anche la nuova dimensione psicologica che questo ha comportato, con evidenti conseguenze sulle dinamiche lavorative, relazionali, affettive e con notevoli ripercussioni sulla gestione dei legami con gli altri, amici e familiari. A tal proposito Trabucco nel 2003 scrive: “La persona umana […] quando è ammalata lo è nella sua totalità. Essa reagisce a qualunque modificazione del suo stato fisiologico di base. […] Qualsiasi evento morboso produce importanti reazioni emotive, psicologiche e sociali”.

Nonostante ogni malattia cronica abbia delle specifiche caratteristiche che la differenziano dalle altre, è possibile individuare un leitmotiv all’interno del quale si possono rintracciare le stesse implicazioni di tipo psicologico. In particolare emerge come il corpo sia, nelle sue diverse dimensioni, il maggiore elemento sul quale la malattia cronica agisce. Quella corporea è poi una dimensione importante dell’identità dell’essere umano: è infatti attraverso il corpo che le persone si relazionano con il proprio contesto sociale.

Diversi autori hanno evidenziato la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e dell’identità, che costituiscono aspetti centrali nell’esperienza di malattia (Kelly & Field, 1996). Le alterazioni delle funzioni corporee causate dalla malattia possono infatti comportare cambiamenti che interessano soprattutto queste due dimensioni. Tutto ciò conduce a una ridefinizione di sé, che è foriera di un profondo cambiamento nel modo di essere e di percepire sé stessi.

Siegel e Lekas (2002) rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti dei veri e propri cambiamenti, cercando di integrare la malattia nella propria vita e percezione di sé nel lungo periodo. Ne conseguono dei veri e propri cambiamenti in termini d’identità personale: cambiamenti che vanno nella direzione della normalizzazione delle proprie caratteristiche personali a dispetto delle trasformazioni causate dalla malattia (Borsari et. al., 2015).

La cronicità è talvolta associata a cambiamenti che possono interessare l’autonomia, la mobilità, la vita di relazione, con il conseguente aumento dello stress, che può tradursi in veri e propri disturbi di tipo psicologico. La ragion d’essere di tali disturbi si àncora nei cambiamenti che si verificano nella vita quotidiana del paziente e che incidono in modo negativo sulla sua qualità, sul benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro o la necessità di cambiare attività, oppure il cambiamento del proprio ruolo sociale quale diretta conseguenza della malattia cronica che, in alcuni casi, impone al paziente un coatto confronto con la perdita o la riduzione della propria autonomia.

Tutto questo processo comporta evidenti ripercussioni sull’autostima, ma anche sul sistema familiare del paziente, che necessariamente deve trovare nuovi equilibri non sempre facili da raggiungere. L’individuo deve infatti scontrarsi con una malattia che permane nonostante le terapie atte a contenerla. Accade spesso che patologie anche molto diverse tra loro, a causa della loro imprevedibilità, pongano i pazienti di fronte alla difficoltà della gestione dei sintomi che queste comportano. Tutto ciò può avere un impatto profondo su quella che lo psicologo Bandura definì come “autoefficacia”, e cioè la consapevolezza di essere capaci di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale (Bandura, 2000).

Si tratta di quell’abilità che ciascuno di noi percepisce nel poter mettere in atto un particolare comportamento o di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di un’azione specifica (Maddux & Gosselin, 2003). Se si cala tutto ciò nella dimensione della malattia, ci si rende conto di quanto sia ancora più gravoso per il malato. Diventa allora fondamentale per il paziente accettare questo nuovo stato di salute per dare un senso a quello che sta accadendo: non è un percorso semplice, ma possibile, durante il quale imparare a valutare realisticamente cosa si può fare e cosa no, e a farlo in modo nuovo e diverso da prima. In questo percorso fatto di adattamenti e riadattamenti può accadere che il paziente cronico sperimenti vissuti quali tristezza, rabbia o solitudine.

È importante, sotto il profilo psicologico, che la persona li possa riconoscere ed elabori tutto ciò che prova, i suoi stati emotivi, siano essi di rabbia, tristezza, paura o altro ancora. È doveroso sottolineare in questa sede che si tratta di reazioni normali di cui è però fondamentale occuparsi affinché possano essere parte di una dimensione transitoria per il paziente, senza che si strutturino come stati affettivi duraturi. Il paziente non è però il solo che deve fare spazio alla sua condizione di cronicità, ma anche il suo nucleo familiare e lo stesso contesto sociale all’interno del quale egli vive, i quali devono confrontarsi con la sua dimensione della malattia, coi disagi e/o con i cambiamenti che questa comporta o potrebbe comportare.

Buona lettura

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico

Questo testo, che vi invito a leggere ATTENTAMENTE, è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie Invisibili – Le barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/

previa registrazione. La collana è gratuita. La registrazione non ha nessun vincolo.

L’autrice è Ilaria Bagnulo: psicologa psicoterapeuta. Fa parte dello staff di direzione della SOSD Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Usl Toscana Centro. L’attività che svolge all’interno dei presidi ospedalieri è duplice: con i pazienti trapiantati e in lista di attesa per il trapianto, con il sostegno psicologico e/o la psicoterapia, e nella chirurgia bariatrica, con la valutazione preliminare del trattamento chirurgico dell’obesità e la gestione del follow up a medio e lungo termine nel post-intervento chirurgico. Oltre all’attività in ospedale svolge la libera professione.

Questo bellissimo, interessantissimo e esaustivo testo, per i numerosi aspetti che l’autrice ha voluto esaminare, con profonda attenzione sugli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico, verrà diviso in capitoli.

Domani, leggerete, sempre su questo blog, altri due capitoli.

Gli aspetti psicologici e sociologici del paziente cronico.

Ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme

(F. De André, 1981)

Un cammino che spesso inizia in salita

Da quando ho intrapreso la mia professione di psicologa e psicoterapeuta ho capito ancor di più che le parole sono importanti, ma soprattutto lo è l’uso che ne facciamo. Se andassimo a consultare il vocabolario alla voce “cronico” vedremmo che questo termine deriva dal greco chronĭcus, derivazione χρονικός, “tempo”. Se calassimo questa parola all’interno della dimensione della patologia scopriremmo che per il paziente soggetto a cronicità il fattore tempo si lega alla sua condizione di salute: il paziente, giorno dopo giorno, si trova a combattere con un corpo o una parte di esso che ha smesso di essere suo “alleato”, rendendo più difficile e complesso il cammino della vita, più di quanto non lo fosse prima. Proseguendo nella lettura, lo stesso dizionario illustra che in medicina, e nel linguaggio comune, ci si riferisce alla cronicità come a una condizione di malattia a lento decorso, e quindi con scarsa tendenza a raggiungere l’esito, cioè la guarigione.

Le malattie croniche sono patologie che presentano sintomi costanti nel tempo e per le quali le terapie non sono quasi mai risolutive. L’incidenza di queste patologie, che possono essere di origini diverse, è molto alta: rappresentano circa l’80% del carico di malattia dei sistemi sanitari nazionali europei. Per quanto concerne il nostro Paese, secondo i dati riportati dall’Istituto superiore di sanità al 5 gennaio 2022, le malattie croniche (o non trasmissibili) interessano in Italia circa 24 milioni di persone. Tali situazioni hanno un impatto importante sulla qualità e sull’attesa di vita della popolazione, perché queste malattie interessano tutte le fasi della vita, anche se i segmenti di popolazione più frequentemente colpiti sono gli anziani: soffre infatti di malattie croniche più dell’85% delle persone che hanno superato i 75 anni di età, ed in particolare le donne dopo i 55 anni. La lotta alla condizione di malato cronico rappresenta, senza dubbio, una sfida complessa ma, al contempo, prioritaria e ad ampio raggio, che parte dall’incremento e dal miglioramento delle conoscenze relative a tutti quei meccanismi e a quei fattori di rischio che portano allo sviluppo della condizione di cronicità e alle possibili strategie e programmi di prevenzione e di trattamento.

È una vera e propria sfida che coinvolge diversi livelli di intervento. Tali livelli si ancorano o dovrebbero ancorarsi a modelli organizzativi basati su un approccio organizzato e integrato, ed essere orientati tanto ad una maggiore efficienza quanto al miglioramento della qualità e dell’assistenza dei malati cronici. Tutto ciò è stato ribadito anche all’interno del recente articolo pubblicato su “Nature” (Whitty & Watt, 2020), in cui si sottolinea quanto sia importante, all’interno dei contesti di cura, superare la tendenza a trattare le diverse comorbilità come “compartimenti stagni” e superare così la tendenza ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialisti, senza che questi abbiano la possibilità di poter lavorare in sinergia gli uni con gli altri. Perseguire questo sentiero è importante anche, e soprattutto, per giungere all’individuazione di una diagnosi corretta.

Al di là della sua specificità, infatti, diagnosticare una malattia cronica può non coincidere con l’insorgenza della malattia stessa. Ci sono pazienti la cui sintomatologia consente di giungere a una diagnosi tempestiva; per altri invece la patologia risulta complessa da individuare perché dalle indagini strumentali il paziente appare sano pur non essendolo.

Sono i così detti pazienti invisibili, che non ricevono sufficienti attenzioni dalla ricerca, perché le loro malattie non rientrano nei LEA: si tratta delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento, di una quota di partecipazione (il ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso le tasse. Ciò significa che per queste categorie di pazienti non sono previste tutte quelle prestazioni o quei servizi che di norma sono forniti dal Servizio sanitario nazionale. Questo genera, sia per i singoli pazienti sia le loro famiglie, un pesante impatto di natura economica, capace di mettere a dura prova il “sistema famiglia”.

Dunque queste persone si assumono l’onere di sopportare, oltre alla sofferenza fisica, anche il disagio psicologico che deriva dal non sentirsi compresi, visti o ascoltati nella propria sofferenza e nel proprio disagio, sia dal contesto sociale in cui sono inseriti che dallo stesso Sistema sanitario nazionale.

Riporto di seguito alcuni stralci dei colloqui con i pazienti:

Una malattia che esiste solo se è visibile ci porta inadeguatezza, disagio, paura”.

Nessuno, oltre a te stesso può vedere, capire o provare cosa ti succede quando si scatena”.

Nessuno mi crede e difficilmente comprende la fatica che comporta anche il più

piccolo gesto”.

Spesso lo stato di salute di questi pazienti viene assimilato alle così dette functional somatic sydromes: sono le sindromi somatiche funzionali descritte per la prima volta da S. Wessely e attualmente definite come Medically Unexplained Symptoms (MUS) o “Sintomi clinicamente inspiegabili”. Sebbene i sintomi inspiegabili dal punto di vista medico rappresentino un fenomeno comune, l’esatta struttura latente dei sintomi somatici rimane in gran parte poco chiara (Edwards, et. al 2016; Witthöft et al., 2013).

È questa la dimensione in cui diagnosi e terapia diventano un percorso tortuoso, perché la sintomatologia spesso non trova una corretta classificazione diagnostica. La ragion d’essere di tale difficoltà potrebbe essere rintracciata nel fatto che malattie, seppur simili, hanno sviluppi e decorsi completamente diversi. Tale condizione mette a dura prova anche il rapporto paziente-medico. Il primo può perdere fiducia nelle capacità diagnostiche del medico e rivolgersi a numerosi altri professionisti. Il medico, invece, proprio in ragione di tali difficoltà, potrebbe richiedere altri accertamenti clinici, che comporta per il paziente intraprendere un percorso travagliato e costellato da diagnosi multiple.

Nell’affannosa ricerca di questo “nemico invisibile”, spesso viene consigliato ai pazienti di andare dallo psicoterapeuta, quale estremo tentativo di trovare una soluzione a un malessere, a una condizione di sofferenza apparentemente inspiegabile e senza nome. Quando questo accade, alla sofferenza viene generalmente riconosciuta esclusivamente la “paternità” della psicosomatica e della matrice di natura psicologica del disturbo organico. Di certo i fattori psicologici sono importanti nella patogenesi di tutte le malattie croniche in cui la componente psicosomatica diventa un terreno comune, un anello di congiunzione tra medicina e psicologia clinica di cui quel disturbo rappresenta l’esito di un processo di somatizzazione, un fenomeno che conduce all’espressione organica di un’emozione o di un conflitto psicologico. Credo però che sia per certi versi controproducente definire unicamente come psicosomatico ciò che, per svariate ragioni, non si riesce a comprendere nella sua complessità, perché questo aggiunge disagio a disagio. Confrontarsi con la cronicità significa allora saper cogliere l’ardua sfida di gestire la complessità; una complessità che contempla anche gli aspetti psicologici e che vede “soma” e “psiche” non come entità separate ma legate nella loro unicità. Nell’individuo, infatti, i processi psichici consci e quelli inconsci non sono separati dagli eventi fisiologici (Frigoli, Masaraki, Morelli, 1980).

A domani, per altri due capitoli:

La complessità della diagnosi e i suoi effetti di natura psicologica

Il sistema famiglia

Buona lettura

Quando la fragilità diventa risorsa

di Francesca Gori: psicologa psicoterapeuta. È responsabile del Comitato Tecnico Scientifico del Coordinamento Toscano dei gruppi di auto aiuto.

Questo testo è tratto dalla collana Le BricioleCESVOT numero 56, “Le Malattie InvisibiliLe barriere dell’invisibilità” che potete scaricare dal sito del CESVOT: https://www.cesvot.it/ previa registrazione, la collana è gratuita.

La registrazione non ha nessun vincolo.

In queste collane “Le Briciole” sono pubblicati gli atti delle migliori esperienze progettuali e formative promosse dagli enti del terzo settore della Toscana con il sostegno di Cesvot. Le pubblicazioni sono a carattere monografico e hanno lo scopo di valorizzare e diffondere le buone prassi del volontariato toscano.

Quando la fragilità diventa risorsa

Il titolo di questo capitolo mi ha portato ad una lunga riflessione. C’era qualcosa che mi stonava, mi metteva quasi a disagio. Sono uscita da questa impasse ancorandomi alla parola “quando”. Quando una fragilità diventa risorsa? È sicuramente frutto di un percorso, spesso lungo, fatto di diagnosi, di migrazioni da un ambulatorio all’altro e da un medico all’altro; un lungo percorso durante il quale non si è nelle condizioni di pensare alla malattia come risorsa quanto piuttosto ad una spada che, come si suole dire, capita tra capo e collo.

Quando parlo di percorso parlo anche di responsabilità verso sé stessi, dove la persona è costretta ad attivarsi, costretta ad assumere una posizione più attiva rispetto al proprio stato di salute. Nel mio percorso professionale e umano ho affrontato, come tutti, il periodo del lockdown a causa del Covid-19. Ci siamo dovuti fermare, abbiamo dovuto fare i conti con la nostra esistenza, abbiamo dovuto rivalutare le nostre fragilità, ci siamo trovati a fare lunghi incontri virtuali con amici e parenti per il bisogno di condividere, per il bisogno di rimanere ancorati al gruppo, al gruppo sociale, condividendo con gli altri la nostra quotidianità e confortandoci a vicenda.

La nostra natura ci spinge verso la condivisione. Il fragile sono io ma siamo anche noi e, se ci riconosciamo in questo, è più facile stare insieme e andare avanti insieme. Condivisione, responsabilità, gruppo sono le parole chiave di un percorso con gli altri, insieme agli altri, insieme a coloro che stanno affrontando lo stesso percorso di vita, di fragilità, di malattia, di disagio. Sono ormai oltre quindici anni che nel mio percorso ho incontrato i gruppi di auto aiuto e dove mi sono (stupendomi) confrontata con la fragilità che diventa risorsa per me e per gli altri.

Le persone che fanno parte dei gruppi – e in Italia si contano circa 30 mila persone – hanno imparato a raccontarsi e fondano il loro sapere sulla base della narrazione condivisa delle esperienze di vita: le vittorie e le sconfitte, il dolore e la possibilità di riemergere, i limiti e le risorse personali.

Un notevole contributo per la gestione delle malattie croniche è rappresentato dai gruppi di auto aiuto, sorti a livello nazionale su precise indicazioni e raccomandazioni suggerite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché ritenuti i più efficaci come risposta non clinica a forme di disagio e malessere.

L’auto mutuo aiuto è definito dall’OMS come: “l’insieme di tutte le misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere e recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata società

Allo stesso modo l’OMS definisce le malattie croniche come quelle patologie che presentano le caratteristiche di lunga durata e generalmente di lenta progressione. La malattia cronica impone cambiamenti fisici e psicologici progressivi e incide in modo significativo su tutti gli aspetti della vita quotidiana, dalle relazioni familiari e sociali, al lavoro, alle altre attività.

Nel gruppo di auto aiuto la persona affetta da una malattia cronica può trovare sostegno emotivo da parte degli altri membri che comprendono la sua sofferenza e il suo disagio, può condividere emozioni e preoccupazioni, può confrontarsi sulla gestione della quotidianità, aumentando la sicurezza in sé e l’autostima, riducendo l’isolamento e favorendo un percorso di accettazione ed elaborazione della propria condizione.

I gruppi di auto aiuto sono portatori di una nuova cultura, stimolano l’assunzione di responsabilità rispetto al proprio cambiamento e al proprio benessere; sono gruppi centrati su un problema comune, orientati all’azione. Hanno tra le loro caratteristiche principali la gratuità e l’assunzione personale di responsabilità, mettendo al centro del modello la “capacità di scelta” dei partecipanti.

Attraverso il gruppo, e con il gruppo di auto aiuto, il mio stato di malattia o disagio diventa qualcosa di importante e il racconto del mio dolore e della mia sofferenza non solo trova comprensione nell’altro ma diventa uno spunto, un nuovo punto di vista sul quale impostare il proprio sguardo. Nel gruppo si ascoltano e si raccontano le esperienze di vita, e la condivisione permette di imparare a gestire il proprio problema e a trovare nuove strategie che consentono di migliorare la qualità della propria vita.

L’ascolto incondizionato, il valore del silenzio, il prendersi cura delle proprie fragilità con delicatezza e premura, rendono l’auto aiuto un luogo dove nessuno viene giudicato. Nel gruppo si trova quel sostegno reciproco che restituisce fiducia in sé stessi e negli altri. Ed è anche grazie a tutto questo che la mia fragilità può diventare una risorsa per me e per l’altro.

Bibliografia

Albanesi C., I gruppi di auto-aiuto, Carocci, Roma, 2004.

Bordogna T., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002.